L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Eppure un giovane su quattro nel nostro paese è disoccupato. Gli ultimi dati Istat indicano che nel secondo trimestre del 2010 il tasso di disoccupazione tra i giovani (15-24 anni) è arrivato al 27,9%, il livello più alto dal secondo trimestre del 1999. Nel Sud la situazione è ancora peggiore: i giovani senza lavoro raggiungono infatti il 39%, un vero e proprio campanello d’allarme che però non sembra preoccupare molto i nostri politici.
Alcuni di essi infatti attribuiscono il dato alla crisi economica e lo ritengono quindi ineluttabile, altri invece cedono alla tentazione di associare la crescente disoccupazione giovanile a fenomeni culturali: giovani che rimandano volontariamente l’ingresso nel mondo del lavoro, che restano per comodità a casa dei genitori, etc. Altri ancora, infine, riconoscono le vere cause del problema, e in particolare l’assenza di un adeguato sistema di formazione professionale e la mancanza di un raccordo tra la scuola e il mondo del lavoro, ma si riempiono la bocca di promesse costantemente disattese.
Siamo di fronte ad un’intera generazione che, oltre a entrare nel mercato del lavoro con grande ritardo rispetto alla maggioranza dei paesi europei, lo fa in condizioni di totale precariato, sia economico che psicologico e motivazionale. E questo non accade per motivi culturali, ma perché la legge lo permette. Non serve studiare i dati o consultare gli esperti per capire qual è la condizione dei giovani nel nostro Paese: basta guardarsi intorno. Ci sono ragazzi e ragazze e giovani adulti costretti ad accettare posizioni mal retribuite, con orari massacranti e contratti a termine destinati a rimanere tali. In molti casi poi si tratta di lavori poco gratificanti e soprattutto poco formativi. Tra i laureati, paradossalmente, la situazione è ancora peggiore.
Gli scarsi investimenti fatti dallo Stato nell’università e nella ricerca hanno portato infatti, negli ultimi anni, ad una situazione in cui la maggioranza dei laureati, anche quelli in materie scientifiche, è obbligata ad accettare lunghi periodi di stage non pagati, in cui si viene trattati come moderni schiavi, al servizio del datore di lavoro. “Si deve formare, deve imparare, deve farsi le ossa”, dicono molti imprenditori e datori di lavoro, ma, in realtà, dietro queste affermazioni paternalistiche si nasconde solo la volontà di sfruttare la situazione di crisi e i difetti cronici del nostro sistema formativo, per ridurre al minimo i costi.
Imprenditori e datori di lavoro sanno infatti che per ogni giovane perso, laureato e non, ne trovano altri dieci disposti a sacrificare l’intera giornata sul posto di lavoro per paghe spesso basse o addirittura inesistenti. È una moderna guerra tra poveri che, in assenza di politiche lavorative intelligenti e adeguate alle caratteristiche del nostro mercato del lavoro, rischia di compromettere un equilibro economico e sociale già piuttosto fragile. In un Paese come l’Italia, dove l’invecchiamento della popolazione è in costante aumento e con esso i costi delle pensioni, dell’assistenza sociale e della sanità, la creazione di una forza lavoro motivata, ben pagata e gratificata dovrebbe essere invece tra le priorità della nostra classe politica, soprattutto in questo grave momento di crisi economica.
Giorgia Lamaro -ilmegafono.org
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