Fu  nel 1999 che qualcuno pensò che alla parola “processo” andasse affiancata quella “giusto”. Anzi, che “giusto” stesse avanti. Perché la giustizia viene prima di tutto. Sono passati quasi dodici anni e si discute ancora su come applicare quel “giusto”. In questi giorni, il presidente Napolitano ha dichiarato che “l’eccessiva durata dei processi mina la fiducia dei cittadini nel ‘servizio giustizia’ e compromette anche la capacità competitiva del nostro paese sul piano economico”. Bene: il problema della giustizia pare essere la durata, e su questo non ci piove. È più facile ambire a diventare centenari, in Italia, che aspettarsi la fine di un procedimento, con ricorsi e cassazioni annessi. Solo che la storia del giusto processo non può che spostare inevitabilmente l’asse del problema su un solo versante, che, confrontato coi problemi che affronta il Paese, pare essere il versante meno adatto. Non che non sia giusto parlarne, ma il problema non è il “quando”, ma il “come”.

Questo benedetto articolo 111 della Costituzione dice che l’imputato ha diritto ad un processo entro un ragionevole lasso di tempo, che le prove devono essere raccolte nel contraddittorio tra le parti (tutto quello che il pubblico ministero fa non arriva direttamente al giudice, ma dev’essere conservato negli atti del processo in udienza, alla presenza di imputato e avvocato che possono controbattere) e che l’imputato ha diritto ad essere giudicato da un giudice terzo, imparziale (per questo è stato inserito il gup, il giudice per l’udienza preliminare, in vista dei possibili rischi d’influenza – visto il precedente lavoro d’indagine – del gip).

Napolitano ha scritto al presidente dell’Associazione Bancaria Italiana, Giuseppe Mussari, chiedendogli uno”’scatto di efficienza del sistema che il paese attende da tempo”, e sottolineando che “il recupero di una piena funzionalità del sistema esige scelte coraggiose che ne riducano i costi di gestione e ne semplifichino le procedure con il contributo di tutti gli operatori e di ogni altra realtà interessata, compresa quella imprenditoriale”. Va tutto bene, ci si muove, anche se in ritardo, in direzione del 111: ma il discorso che la giustizia è uguale per tutti? Beh, si sa, chi lo affronta è fregato: è un giustizialista, bontà sua. Chi ricorda al premier che è plurimputato, indagato per vie traverse, che il suo nome compare in seno a truffe, stragi, complotti, associazioni segrete, è un dissennato che mina la democrazia.

Già, la democrazia, quel concetto vecchio. Troppo andato: il capo dello Stato, buon uomo che piace a tutti e che di certo non ha cattive intenzioni, mostra d’avere slanci tecnologici niente male, augurando che “l’innovazione” aiuti in direzione di una soluzione legata a questo tanto decantato “giusto processo”. Così ecco l’intervento del Quirinale nel “dibattito sulla giustizia” (così si legge sulle maggiori testate), ecco che il vertice della democrazia dimostra di esserci. Ma c’è ancora chi distingue la forma dalla sostanza? Siamo ancora certi che dibattere sul “giusto processo” significhi dibattere sul “processo giusto”?

Sebastiano Ambra -ilmegafono.org