Una notizia che è passata in secondo piano, per via della giustificata attenzione dedicata ai risultati elettorali, ma che in un Paese senza memoria, assalito da corruzione e impunità, va invece sottolineata e fissata bene a mente, soprattutto se la coincidenza fortuita con l’appuntamento elettorale diventa il segno tangibile di quella parte d’Italia che non ha imparato la lezione. O forse l’ha imparata bene e adesso la sfrutta a proprio vantaggio. Pepè Flachi, il boss della Comasina (un quartiere di Milano), uno dei capi ‘ndrangheta storici della Lombardia, è stato condannato dal tribunale di Milano a venti anni e quattro mesi di reclusione per estorsione, smaltimento illecito di rifiuti e associazione a delinquere di stampo mafioso. Alla moglie del boss, i magistrati hanno anche sequestrato una polizza vita che prevedeva un premio di 25 mila euro l’anno.
Una condanna pesante per uno dei capiclan più influenti, arrestato due anni fa insieme ad altre 34 persone nell’ambito di un’operazione diretta a sgominare il potere delle ‘ndrine in Lombardia. Un potere ramificato che aveva portato il clan Flachi a controllare diversi settori dell’economia lombarda, a partire dalla movimentazione terra e dalla gestione della security dei locali e dei negozi in metropolitana, fino al ramo delle estorsioni ai danni delle paninoteche ambulanti. Un impero che è finito nel mirino dei giudici milanesi, che, nella sentenza di condanna (che ha riguardato il boss e altre 15 persone), hanno perfino previsto per Flachi e per altri affiliati la misura dell’assegnazione ad una colonia agricola per 3 anni dopo la fine della pena.
Una sentenza esemplare, in un momento in cui in Lombardia si afferma nuovamente il centrodestra, seppur con una guida diversa da quella che ha colonizzato il Pirellone negli ultimi 17 anni. La Lega Nord e il Pdl, dunque, nonostante i ripetuti scandali e la fine della legislatura per via del caso Zambetti e del voto di scambio con le ‘ndrine, sono di nuovo al potere, insieme, compatti. La politica: l’elemento cruciale con cui si dovrebbe dar seguito all’azione di pulizia che la magistratura, da qualche anno anche in Lombardia e nel resto del Nord, cerca di portare a compimento con sacrificio e dedizione.
Una politica che anche Pepè Flachi e i suoi guardavano con grande interesse, se è vero che in occasione delle scorse elezioni regionali avevano deciso di sostenere la candidata del Pdl, Antonella Maiolo (non indagata per mafia, ma per peculato nell’inchiesta sui rimborsi in Regione), poi eletta. Chiaramente sono indagini, voci, ipotesi, ma ci sono anche i fatti che ci raccontano che in questa regione il controllo della ‘ndrangheta sull’economia, sulla politica e sui meccanismi del consenso è elevato, radicato, forte. Persino l’omertà, caratteristica che per anni è stata vergognosamente etichettata come patrimonio “etnico” dei meridionali, è radicata e funzionale al mantenimento del controllo.
Lo dimostrano le reticenze, le complicità nascoste, ma anche le dichiarazioni a verbale ritrattate per paura da ben 23 testimoni nel corso delle indagini che hanno portato alla nuova condanna di Flachi (adesso ai domiciliari per via del suo stato di salute). La memoria, il senso delle istituzioni, la legalità sono utopia anche in questa regione che tanto lontana si sente da certe nefandezze. Lo snobismo culturale dei milanesi e dei lùmbard duri e puri si frantuma nei risultati di un voto che in Lombardia ha conservato la stessa fisionomia del potere. Dopo tutti gli scandali e la sfacciata gestione Formigoni, il popolo lombardo ha deciso di non cambiare, di mantenere, di riproporre. Probabilmente perché il voto di scambio è forte anche qui, è entrato nelle vene di una democrazia drogata dalle convenienze, dagli affari che fruttano, dalle mastodontiche brame di chi è pronto a tuffarsi nel pentolone d’oro e fango dell’Expò.
Nella Regione della memoria, delle commemorazioni delle origini della democrazia, proprio la memoria viene smembrata, sezionata e riposta sotto il cemento. Ecco perché la condanna di Flachi e di altri 15 criminali non deve passare in silenzio. Perché dentro quelle accuse e quelle carte, c’è il Dna del virus che vuole infettarci e c’è il profilo di un potere da tenere bene a mente, per evitare di dimenticare. Ancora una volta.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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