Una casa, per essere stabile, deve avere equilibrio, un progetto razionale, materiali di qualità, una struttura solida. In un contesto ideale, una casa dovrebbe inoltre avere un rapporto armonico con la luce e con il calore, essere accogliente e mantenersi tale, con la cura e la manutenzione di tutte le sue componenti. Di sicuro, non è aggiungendo cemento o abbattendo pilastri portanti per far spazio a muri fragili, che si garantiscono stabilità ed equilibrio. Anzi, in questo modo la si condannerebbe a crollare. Tutto ciò è risaputo, perfino ovvio, eppure ci sono progettisti, costruttori, ingegneri che sembrano avere proprio questa cattiva intenzione. La casa Europa è piena di crepe che si allargano ogni volta che una ruspa si muove per lavorare una striscia di terra sulla quale verranno piazzate recinzioni e innalzati muri che non sono solo materiali, ma anche politici.

L’Europa ha rinnegato se stessa, il suo progetto, i suoi valori che ne ispirarono il sogno originario e che l’avevano vista protagonista dei trattati e delle convenzioni sui diritti dell’uomo. Anno 1951, Ginevra: quella fu la sede di una firma che conteneva principi inalienabili (su rifugiati, diritti umani e asilo) che avrebbero dovuto scandire il tempo delle democrazie moderne. Troppo fresco l’orrore del secondo conflitto mondiale e della Shoah, troppo lacerante il dolore di una ferita che, soprattutto ai vincitori, aveva lasciato il compito di impedire che tutta quella spaventosa tragedia potesse ripetersi. Quanto è lontana oggi quella firma? L’Europa ha dimenticato tutto.

Al netto della retorica che, in occasione delle commemorazioni obbligate, risveglia parole di umanità e appelli alla memoria, la realtà concreta è che questo continente è pieno di progettisti, costruttori e ingegneri del male pronti a far crollare tutto, replicando quelle stesse logiche disumane che l’Europa nascente aveva provato a eliminare dalle sue fondamenta. L’Austria, l’Ungheria, la Macedonia, la Francia (qualcuno si ricorda ancora di Ventimiglia?), la Danimarca e così via: le barriere, i muri sono materiali, ma sono anche politici, normativi, burocratici. Sono la faccia peggiore della storia europea che si ripropone. Sono il risultato tangibile di un impasto di filo spinato, metallo, fango, terra e razzismo. Sono le pareti armate che circondano la casa, talmente spesse e voluminose da far sparire le porte e impedirne l’apertura.

Non entra più nessuno. Anzi, davanti al pianerottolo sporco e grigio, chiunque arriva trova divise, con manganelli e lacrimogeni in mano, pronte a rimandare indietro i nuovi arrivati, a cacciarli lontano dalla possibilità di essere visti, cosicché anche affacciandosi dal balcone della loro fortezza gli europei possano starsene in pace, senza esser costretti a guardare in faccia il frutto del loro egoismo e della loro rancida coscienza. Abbiamo visto di tutto, abbiamo ascoltato parole violente a cui qualcuno si è abituato troppo in fretta, abbiamo guardato immagini che a gran parte dei cittadini hanno disturbato solo il pranzo e la cena ma lasciato intatte anima e coscienza.

Le violazioni dei diritti umani, i campi improvvisati e privi di qualsiasi servizio, la fame e il freddo nelle ossa di povera gente scampata alla guerra e alla miseria, le bastonate e i proiettili colmi di gas lacrimogeni sparati tra quella gente, gli occhi dei bambini che bruciano, le loro lacrime, le loro paure all’ingresso di un continente che sembrava avere la forma elementare di una speranza: questo è ciò che stiamo lasciando avvenga senza darci troppi scossoni, senza rovinarci troppo le giornate o le ore. Lanciamo uno sguardo, poi torniamo alla nostra abitudine quotidiana. Una indifferenza colpevole, come quella con la quale l’Europa d’epoca nazista preparò l’orrore che portò alla guerra e alla Shoah. “Ci stiamo affidando totalmente ai macchinisti”, mi ha detto qualche giorno fa un fraterno amico, riferendosi ai governi e ai loro leader che dirigono questa Europa inguardabile.

Proprio così. E il problema è che ci siamo seduti comodi sui sedili dei vagoni, lasciando che i leader ci guidino su strade pericolose senza curarsi del rischio di deragliare. Non ci preoccupa troppo sapere dove finirà quel treno. Ogni tanto versiamo una lacrima piena di buoni propositi. Poi, nel giro di poche ore torniamo ad applaudire i macchinisti. Il piccolo Aylan lo abbiamo abbandonato su quella spiaggia. Quella immagine ci serviva per ricordarci di avere una coscienza. Ma solo perché non ci chiedeva nulla, solo perché non c’era più nulla da fare. Altrimenti ci saremmo girati dall’altra parte. Proprio come facciamo ogni giorno davanti ai bambini siriani, afgani, iracheni, eritrei e così via.

Ci giriamo dall’altra parte un secondo dopo aver visto i manganelli e i lacrimogeni dei poliziotti macedoni scagliati contro i bambini di Idomeni. Tutto normale, perché quelli sono vivi, quelli parlano e piangono ancora, ci chiedono aiuto, chiedono di entrare dalla porta. E noi invece gli abbiamo riservato recinzioni e muri, in Macedonia come a Vienna. Il segno di un’Europa morente, di una casa debole che un tempo i muri li buttava giù e oggi invece lascia che spuntino ovunque, a ricordarci che la memoria, da queste parti, è solo una parola. Una parola vuota.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org