“Thanks to Italy, that’s a crazy country but beautiful”, sono queste le parole con cui il regista partenopeo Paolo Sorrentino ringrazia il suo paese per la vittoria del Golden Globe, come miglior film straniero, da parte de “La Grande Bellezza”. La pellicola è stata per alcuni giorni al centro di un dibattito mediatico. Sotto veste di rappresentazione epittetiana, ha dato da parlare sul tema dell’identità italiana nel mondo. Sulla questione sono intervenuti filosofi, deputati e giornalisti, oltre alla mandria rurale dei social network. La domanda al centro delle critiche è grosso modo questa: il film di Sorrentino è davvero un’eccellenza o è il solito film su Roma e l’Italia che Hollywood non finirà di amare mai e poi mai? Senza entrare nel merito della questione cinematografica, la critica è cieca nel suo principio e in parte decontestualizzata. Proviamo invece a porci un’altra domanda, più ingombrante: come è messo il cinema in Italia?

Punto dolente, specialmente se, provando a rispondere a questa domanda, dobbiamo inevitabilmente toccare il tasto della cultura in senso lato. Mancanza di investimenti, di fondi, di valorizzazione, scandali e tanto “capitale umano”, come direbbe Virzì, gettato all’aria. Questi sono i luoghi comuni sulla cultura, li abbiamo ripetuti così tante volte che ora è quasi noioso parlarne, tanto che al momento la questione latita sulla scena politica. E non si può non aggiungere che proveniamo da un ventennio in cui la cultura non solo non è stata presente nell’agenda politica, ma spesso è stata considerata un vero e proprio ostacolo di bilancio. Quindi riformuliamo la domanda: come è messa la cultura in Italia? Cerchiamo di rispondere osservando l’argomento da due prospettive di carattere economico-sociale: quella privata e quella pubblica. Vediamo una prima ricerca principalmente sul settore privato, “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, il rapporto elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere (con la collaborazione dell’assessorato alla cultura della Regione Marche) nel 2013.

Cosa si intende per cultura? Quattro i macro settori presi in considerazione dalla ricerca: industrie culturali propriamente dette (film, video, mass-media, videogiochi e software, musica, libri e stampa), industrie creative (architettura, comunicazione e branding, artigianato, design e produzione di stile), patrimonio storico-artistico architettonico (musei, biblioteche, archivi, siti archeologici e monumenti storici), e performing art e arti visive (rappresentazioni artistiche, divertimento, convegni e fiere).

La cultura rappresenta il 5,4% del PIL, ovvero quasi 75,5 miliardi di euro. Dà lavoro a quasi un milione e quattrocentomila persone, il 5,7% del totale degli occupati. Il sistema produttivo culturale vanta un moltiplicatore pari a 1,7: per ogni euro investito in una delle attività culturali sopracitate se ne ricavano 1,7. Quindi gli 80,8 miliardi di euro prodotti nel 2012 dall’intero sistema produttivo culturale riescono ad attivare quasi 133 miliardi, se poi estendiamo a tutta la filiera culturale in senso lato si arriva a 214 miliardi di euro. La cultura ha un andamento anticiclico: nel 2011 ha avuto una flessione di valore aggiunto a prezzi correnti al -0,3% rispetto al -0,8% del resto dell’economia. Rispetto al 2011 gli occupati dal sistema cultura sono cresciuti nel 2012 dello 0,5% a fronte del -0,3% del totale dell’economia, inoltre il sistema produttivo culturale ha visto crescere del 3,3% il numero di imprese, mentre il resto del tessuto produttivo del Paese rimaneva sostanzialmente immobile.

Quindi possiamo dire che in Italia la cultura funziona come braccio produttivo, rende profitto ed è un buon investimento: in poche parole, il settore privato va a gonfie vele. Parlando invece della prospettiva pubblica, la ricerca comprende sì il patrimonio storico-artistico e architettonico, ma tralascia la scuola. Se vogliamo conoscere l’impatto della produzione culturale sul sapere del nostro paese e sui nostri cittadini dobbiamo inevitabilmente puntare l’attenzione sulla scuola pubblica. Senza effettuare un elenco di numeri e dati (basta citare la spending review e i tagli alle borse di studio della riforma Gelmini per dare già un’idea) il nostro sistema scolastico è in crisi e con esso la nicchia dell’istruzione artistica, l’accesso ai finanziamenti pubblici per progetti emergenti, la formazione della nostra classe artistico-intellettuale.

Certo, non si formano registi o compositori cinematografici allo stesso modo in cui vengono formati manager tramite le business school. Senza finanziamenti e strutture finanziate, però, un qualsiasi progetto (anche emergente), un qualsiasi valore umano in Italia ha difficoltà a nascere per motivazioni diciamo più logistiche che di mercato. Il mercato “tira” ma non si alleva una nuova generazione di cervelli che spesso fuggono all’estero a malincuore.

Le critiche mosse al film di Sorrentino, anche prima della vittoria del premio, mettono in mostra quanto sia poco viva la questione nei nostri dibattiti e di come si vive ancora di glorie del passato ormai fuori tempo. Forse gli americani ci danno i premi per accertati motivi di stereotipo artistico, forse questa volta lo hanno fatto con un film estremamente delicato, forse Sorrentino è riuscito a portare una pellicola italiana nel mondo, forse l’arte italica ha firmato la presenza a Hollywood, trampolino di lancio per il cinema internazionale. In questo momento, la cultura made in Italy è vittima non di un calo qualitativo ma di uno spreco immenso di potenziale. Non possiamo vivere di cultura ma potremmo divenire un riferimento internazionale della cultura, e non solo in termini di patrimonio ma anche di formazione artistica.

Ennio Flaiano disse che “l’arte è un investimento di capitali, la cultura un alibi”: oggi il nostro paese si crogiola in una velleità culturale, figlia viziata di una gloriosa storia artistica. Una piccola bellezza, che se non nutrita da giovani spiriti rischia di sedimentare sotto il chiacchiericcio della comune volgarità.

Italo Angelo Petrone –ilmegafono.org