Una guerra infinita, una terra sottoposta a un massacro continuo, schiacciata dalla povertà e dal suo essere al centro dell’interesse politico mondiale. A meno di quattro anni di distanza dall’operazione militare “Piombo Fuso” che l’aveva messa in ginocchio, causando oltre mille vittime, Gaza affonda di nuovo nel sangue, nel dolore e nel fuoco dei bombardamenti. I civili, come sempre, pagano le conseguenze di una violenza che si svolge sotto gli occhi di un mondo che è riuscito a stento ad imbastire una tregua che appare precaria e lo ha fatto in ritardo, senza esser capace di fermare in tempo il pugno duro di Israele e i metodi sbrigativi del suo presidente Netanyahu. Obama ha provato a mediare, riconoscendo il diritto dello Stato israeliano a difendersi dai razzi lanciati dai palestinesi e, al contempo, chiedendo ad Israele di non eccedere nelle reazioni e poi di fermare gli attacchi, ma la sua iniziale “timidezza” (che poco si addice ad un premio Nobel per la pace) rimane un brutto segnale.
Nella Striscia, nel frattempo, la gente muore, muoiono soprattutto bambini, vittime di un infinito gioco di potere che si svolge sopra di loro, inquinando il cielo, sporcando l’orizzonte dietro il quale essi dovrebbero scorgere non missili o nuvole di fumo, ma sogni, speranze, pace, futuro. Gaza, palcoscenico posto al centro di una piazza in cui gli scenari si sono modificati, ridisegnando equilibri, posizioni, alleanze. Il medio Oriente è cambiato, scolpito nella sua nuova fisionomia dallo scalpello della rivoluzione araba che, dalla Tunisia, si è propagata fino alla Siria e all’Egitto, dove Mubarak non c’è più, sostituito da Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani.
Lo scenario è nuovo e Israele deve fare i conti con un maggiore isolamento e con la percezione di una probabile riduzione del suo potere nell’area, mentre le potenze occidentali che lo sostengono, Stati Uniti su tutti, continuano a non comprendere le ragioni del popolo palestinese e non si curano troppo del fatto che questa nuova situazione di instabilità rischia di innescare l’esplosione di un conflitto di dimensioni estese. In questo equilibrismo geopolitico, fatto di strategie, sfide, prove di forza e tensione, il popolo di Gaza recita il ruolo della pedina di scambio o, peggio, della vittima sacrificale. Il presidente Netanyahu ha affermato che il suo governo ha una “mano tesa”, da un lato, verso chi vuole la pace, mentre nell’altra impugna una “spada” per difendersi dal nemico.
In realtà, il suo governo, fino all’attuale e momentanea tregua, non ha teso alcuna mano, anzi, quando l’ha mossa è stato solo per uccidere, colpire, assediare, imprigionare la Palestina, il suo diritto a vedersi riconosciuta come Stato. Ha ragione Moni Ovadia quando afferma che, in realtà, non c’è alcuna trattativa, semplicemente perché Israele, con il consenso degli USA, non intende trattare né riconoscere alcunché ad Hamas e ai palestinesi. La volontà politica di Netanyahu è duplice: da un lato, egli vuole indebolire (fino ad annientarlo) il ruolo politico di Hamas, che, grazie ai nuovi scenari in Egitto e in tutto il mondo arabo, ha ripreso vigore; dall’altro, mira a mostrare i muscoli ai nuovi leader degli stati che circondano Israele e che sono meno propensi ad accettare la logica del compromesso e dell’accordo. Questo sul piano politico. Perché poi c’è un altro livello della volontà dell’attuale governo israeliano. Ed è il peggiore, quello insopportabile, moralmente, civilmente, umanamente.
Israele si nasconde, ancora una volta, dietro l’ovvia legittimità di difendere i propri cittadini dai razzi lanciati verso le proprie città e prova così a far passare sotto la logica della giustificazione e dell’emergenza nazionale il massacro scientifico della popolazione civile di Gaza. La sensazione, infatti, è che Netanyahu e i suoi abbiano in mente lo sterminio del popolo palestinese, lo svuotamento di Gaza attraverso l’uso delle armi, delle bombe, dei missili. Devono finire, devono sparire dalla faccia della terra. Perché solo una logica di sterminio può spiegare le azioni di guerra contro un popolo inerme, che non può difendersi in alcun modo, se non attraverso qualche atto isolato. Nell’avvio di questa nuova campagna militare contro Gaza c’è un elemento che inquieta: l’esercito israeliano ha colpito, con una certa insistenza, le sedi delle emittenti televisive (ad esempio Al Aqsa e Press Tv).
Oscurare, impedire il passaggio delle informazioni: una strategia precisa per poter agire indisturbati. Ed infatti così ha poi agito la macchina militare israeliana, attaccando obiettivi civili, colpendo i campi profughi più popolati, gli ospedali, le scuole. Non c’è una logica di guerra, semplicemente perché non è una guerra, non ci sono due eserciti che si affrontano, c’è solo la violenza unilaterale di un esercito potente e addestrato nei confronti di un popolo privo di mezzi di difesa. Quale altra ragione, se non quella di uno sterminio programmato, può spiegare questa azione di morte diretta non ad un altro esercito ma ad un intero popolo? Israele non si sta difendendo, non difende il proprio Stato dai razzi, sta solo cercando di risolvere la questione dei territori di cui è occupante attuando una “soluzione finale”.
Al suo interno, il popolo è meno compatto di quel che sembra, ma la destra israeliana continua a guidare il Paese, con il suo carico di fanatismo e di terrorismo di Stato. Soltanto la comunità internazionale può fermare questo scempio, evitando che l’umanità si macchi ancora di genocidio e risolvendo una vicenda le cui origini affondano nel buio della storia. Barack Obama, soprattutto, ha il dovere politico e morale di intervenire su Israele e sulle lobby che negli USA continuano a parteggiare acriticamente per il governo di Netanyahu.
Al di là delle promesse sul futuro migliore per gli americani, ha l’obbligo di mostrare coraggio e determinazione in politica estera, fermando il presidente israeliano e pretendendo un definitivo cessate il fuoco e l’avvio di una trattativa vera che riconosca lo stato palestinese, assegnando ad esso un ruolo all’interno dell’Onu. Altrimenti la spirale dell’odio riprenderà a girare vorticosamente, con effetti tremendi e rischi elevati per tutti, non solo per Israele e Palestina. Vogliamo continuare a pensare che in questo mondo, come diceva Vittorio Arrigoni, si possa “restare umani”. Anche se, a guardare bene ciò che accade, di umano a Gaza è rimasto solo il dolore.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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