C’era una volta l’Italia del dopoguerra, c’era l’Italia dell’emigrazione interna, quella dei figli e dei mariti lontani, della Fiat piena di “terroni”, delle grandi città del nord e dei quartieri dormitori pieni di meridionali, delle lettere alle famiglie. Ma era anche l’Italia delle altre famiglie, quelle che crescevano insieme, padri, madri, nonni, figli, nipoti. Un’Italia semplice e povera, con un Sud svuotato e un Nord che si arricchiva, un’Italia che provava a svilupparsi e rimettersi in piedi, con i suoi vizi eterni e le sue virtù, con la sua gente dai tanti dialetti e i suoi intellettuali in movimento. C’era anche la politica, nonostante tutto. C’era. E oggi? La domanda la rivolgo al ministro Cancellieri. La risposta non arriverà mai ovviamente. Eppure dovrebbe rispondere, caro ministro, e dovrebbe fornirci il quadro esatto dell’Italia attuale o, almeno, di quella che appare ai suoi occhi, al suo vissuto, al suo ambiente. A cosa dovrebbero abituarsi oggi gli italiani e, in particolare, i giovani? Viaggiare, cambiare lavoro, smetterla di pensare che si possa lavorare e vivere nella stessa città di mamma e papà. Questo risponderebbe, stando alle sue recenti dichiarazioni. Perché i tempi cambiano, ci dice, bisogna adeguarsi, diventare moderni, assomigliare di più ai grandi paesi europei.
A me sembra che qualcuno voglia farci tornare indietro. A volte penso che esistono due Italie; una vista dal palazzo, dal potere, dai piani alti, e l’altra vista da chi vive per strada, tra la gente, senza autoblu, senza corsie preferenziali. Bene, caro ministro, io credo che Lei questo Paese non lo conosca, perché altrimenti saprebbe che l’emigrazione interna è tornata a crescere, che il Sud si sta svuotando di nuovo, che le sue città si stanno spopolando. Saprebbe che molti talenti vanno via, all’estero, non per una normale e virtuosa globalizzazione del mercato del lavoro, ma perché qui non ci sono opportunità. Ci sono ricercatori, insegnanti, tecnici di primo livello cacciati via dal sistema, costretti a trovare ciò che meritano al di fuori dei nostri confini inquinati dalle caste e dai baroni. Altro che giovani abituati a stare nelle proprie città accanto ai genitori. Le mamme e i papà li sentiamo e li vediamo su skype, perché li abbiamo dovuti lasciare per poter trovare uno straccio di lavoro.
I tanto odiati giovani sono già in movimento da anni, hanno lasciato casa, hanno scelto di emigrare, spesso svolgono lavori non in linea con il proprio percorso di studi oppure vivono sottopagati, senza tutele, guadagnando il minimo indispensabile per pagare un affitto, quasi sempre salatissimo. Siamo la generazione a progetto, lontani dai nostri affetti e senza alcuna certezza, perché non abbiamo tutele, non sappiamo se il contratto rinnovato ogni 6 mesi ci verrà confermato, non possiamo accendere un mutuo (perché le banche, che Lei e i suoi colleghi di governo amano tanto, non ti danno nulla senza garanzie), non possiamo pensare ad un futuro lontano più di 6 mesi o un anno. Non abbiamo paracadute, quando ci scade il contratto e non ci viene rinnovato perché al datore di lavoro non conviene farlo e preferisce sostituirci con uno stagista a basso costo. Ci sono ragazzi di 18 anni che ti dicono che sognare è inutile, che studiare è inutile, perché tanto poi “ti ritrovi come mio fratello o mio cugino o mia sorella o il mio migliore amico, che con la laurea lavorano in un call center”.
Forse Lei, caro ministro, questi ragazzi non li ha mai incontrati. D’altra parte, non li incontrerà mai alla prima della Scala. Mi dirà che siamo i soliti italiani poco avvezzi al cambiamento, rovinati dalla mentalità del posto fisso, della vita facile. Il posto fisso, lo riferisca al suo capo, non è più nella nostra mente da anni. Lo vediamo come un ricordo del passato, un privilegio che la sua generazione ha sfruttato e consumato, estinto. Noi siamo la generazione sfigata, quella che deve pagare tutto: la crisi, i vostri errori, anni di cattiva politica, il dominio delle corporazioni e delle caste. Siamo nel Paese in cui le banche non assumono chi ha un voto di laurea superiore al 105, perché ritenuto più ambizioso ed esigente, l’Italia delle università in cui dietro le cattedre e nei luoghi di ricerca siedono quasi esclusivamente i “figli di” o “gli amici di”, uno Stato in cui il merito non è premiato ma osteggiato, vilipeso, umiliato.
L’Italia in cui intere famiglie si spezzano per poter mantenere il posto di lavoro, storie di coppie con figli, soprattutto nel mondo della scuola devastata dalle riforme dei vari governi, che si separano per anni, che vivono solo qualche week-end o festività come una famiglia, rinunciando ogni altro giorno dell’anno al loro diritto ad una vita normale, fatta anche di sentimenti ed emozioni. Io, durante i periodi di festa, ne ho incontrate parecchie, all’aeroporto, di donne, insegnanti, che tornavano dai propri mariti, e di uomini, insegnanti, che tornavano dalle proprie mogli. Lei probabilmente no, perché queste persone non viaggiano nei voli di linea, ma nei low cost.
Apparteniamo a due mondi diversi, caro ministro. Per questo motivo la vostra idea di riforma del lavoro mi spaventa. Mi fa paura l’arroganza con cui pensate di stravolgere tutto un sistema di diritti che è nato per tutelare chi ha un potere contrattuale più debole. Mi terrorizza la velocità con cui il vostro governo, la cui legittimità non viene direttamente dagli elettori, pensa di modificare il diritto primario su cui si fonda la nostra Repubblica e a cui la Costituzione dedica il suo primo articolo. Mi atterrisce il fatto che questa riforma venga da chi vive in un Paese diverso da quello reale, di cui non conosce dinamiche, contesti, volti, storie, vissuti. Dalla vostra torre dorata, dove vivete rinchiusi con le vostre famiglie, con i vostri figli sistemati al meglio e ricollocati con facilità nel caso di perdita del lavoro. Per voi sì che la flessibilità non è un problema ma una risorsa. Voi siete gli ammortizzatori sociali di voi stessi.
Provate a sradicare via il vostro sistema di contatti, rapporti, conoscenze; rinunciate ai vostri incarichi presso società, banche, università; rimettetevi in gioco e date l’esempio per primi; provate ad avventurarvi nuovamente tra i meandri del mercato del lavoro. Altrimenti tacete e ascoltate chi dentro quel mercato spietato e ingiusto ci si trova a combattere ogni giorno. Lasciate le prime teatrali e i palcoscenici televisivi e scendete tra la gente, perché anche se siete “tecnici” e non politici di professione è con la gente che dovete parlare. Magari, per una volta, cercando di ascoltare, in silenzio.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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