“L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Dei commi dell’articolo 27 della nostra Costituzione, sarebbe opportuna la frequente rilettura. Per evitare di cadere nei luoghi comuni avallati dai pregiudizi, per scongiurare i processi mediatici paralleli a quelli nelle aule giudiziarie, per contenere la proliferazione di idee punitive che rievocano momenti bui della storia. Ma sempre l’articolo 27 enuncia, in apertura, che la responsabilità penale è personale, un principio che sembrerebbe sconfessato dalla presenza di tante bambine e tanti bambini detenuti insieme alle loro madri. Dagli anni del Covid in poi, il loro numero è contenuto: sono poco meno di 30, in tutta Italia. Una cifra apparentemente irrisoria. Eppure, una cifra affatto trascurabile. Immaginiamoli, questi bambini, tanti quanti quelli che, mediamente, riempiono le aule scolastiche, occupano i loro piccoli banchi. E che, invece, si trovano a crescere, talvolta a nascere, in un istituto penitenziario.

Sono bambine e bambini – rivelano i rapporti annuali sulle condizioni detentive dell’Osservatorio Antigone – che parlano poco e, quando lo fanno, dicono parole diverse da quelle dei loro coetanei. Parole come “apri”, rivolte a quelle porte e a quei cancelli che, lo intuiscono con la perspicacia propria dell’infanzia, limitano in qualche modo la loro libertà di movimento, le loro possibilità di interazione. Sono bambine e bambini con disturbi alimentari, con difficoltà del sonno, che spesso hanno a che fare solo con altri adulti. Che non possono correre in un parco e che escono all’aperto poche volte, sempre in compagnia di persone diverse dalle loro mamme. Esisterebbero, in astratto, diversi modi per rendere meno traumatica l’esperienza carceraria dei minori: le case famiglia, innanzitutto, strutture protette, gestite con l’ausilio dei servizi sociali. Dei luoghi, lo si intuisce dalla denominazione, che potrebbero coniugare l’esigenza di far scontare la pena detentiva alle diverse, ma altrettanto valide, esigenze dei minori. In tutta Italia, le case famiglia sono solo due, a Milano e a Roma.

In alternativa, gli ICAM (istituti a custodia attenuata per madri) che, diversamente dalle case famiglia, sono inseriti nel contesto della amministrazione penitenziaria. I muri sono colorati, gli agenti non sono armati, ogni mamma ha un bagno privato. Eppure, le luci sono sempre accese, le porte sono sempre chiuse, le finestre sono sempre sbarrate. Anche gli ICAM sono in numero ridotto: solo quattro, a Milano, Venezia, Torino e Avellino; un quinto, in Sardegna, non è mai entrato in funzione. E, dunque, gran parte dei minori detenuti con le loro madri è accolta nelle normali carceri, in apposite zone degli istituti penitenziari ordinari. Le sezioni nido, così vengono definite, contengono stanze più ampie, dotate di culle e di fasciatoi, talvolta di aree gioco e di aree lettura. A Rebibbia, invece delle porte blindate, le camere sono delimitate da vetrocemento, quel materiale che lascia filtrare la luce, ma non lo sguardo all’esterno.

Quando non sono disponibili nemmeno le sezioni nido – che sono circa 10, in tutta Italia – i minori vengono accolti nelle sezioni femminili delle carceri ordinarie, in stanze attrezzate in maniera approssimativa, con culle e giochi. Dovrebbero essere soluzioni di breve durata, detenzioni di brevissimo periodo, fino al trasferimento in strutture idonee o alla decisione di differimento della pena. Eppure, talvolta, lo segnala l’osservatorio Antigone, i minori rimangono in queste condizioni, in un’unica stanza, per diversi mesi. La circostanza che le strutture apposite per minori siano sparute e del tutto assenti in alcune aree del Paese, per esempio il sud e le isole, comporta un’altra conseguenza: una madre detenuta che abbia anche altri figli più grandi d’età, che non possono quindi seguirla all’interno delle mura carcerarie, rischia di vivere un terribile conflitto tra la possibilità di offrire condizioni detentive meno traumatiche al neonato e l’inevitabile allontanamento dalla residenza del proprio nucleo familiare.

La politica, invece di interrogarsi su queste tematiche guidata dal faro del “best interest of the child”, che dal 1989 è cristallizzato nella Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, e di riflettere sulle considerazioni della Corte Costituzionale che, negli ultimi decenni, ha ribadito che gli articoli del codice penale a tutela delle detenute madri sono direttamente collegati ai principi costituzionali – l’articolo 27, per il senso di umanità delle pene, l’articolo 31, che protegge la maternità e l’infanzia – si concentra, piuttosto, sull’inasprimento delle sanzioni. Tra il 2022 ed il 2023, Serracchiani del PD, insieme ad Azione e Italia Viva, aveva tentato di proporre una legge che modificasse, in senso più favorevole alle madri detenute, gli articoli 146 e 147 del codice penale. La proposta era stata ritirata dopo la presentazione, da parte della maggioranza di centrodestra, di alcuni emendamenti che avevano stravolto il senso dell’intervento normativo, in chiave propagandistica: “Si ferma il vergognoso sfruttamento della gravidanza da parte di borseggiatrici e delinquenti”, aveva scritto Salvini sui social.

Nel corso del 2024, tra i ddl sicurezza e il decreto carceri, la normativa è stata ulteriormente modificata. In senso evidentemente repressivo. È stata abrogata, infatti, la disposizione che prevedeva il differimento obbligatorio della pena per donne incinte o madri di figli di età inferiore ad un anno; adesso, il differimento della pena è solo facoltativo, con una valutazione rimessa al magistrato di sorveglianza, che dovrà bilanciare l’interesse del minore con la pericolosità sociale della madre. La norma, che comporterà inevitabilmente un aumento del numero di bambine e bambini nelle carceri, affonda le sue radici nella propaganda del centrodestra: è pensata come norma simbolicamente diretta a reprimere le donne di etnia rom, sulla base del pregiudizio che, grazie alle gravidanze, riescano a sottrarsi alle pene carcerarie. Un propaganda smentita però dalle cifre: le detenute straniere, secondo i grafici dell’osservatorio Antigone, sono molte meno delle detenute italiane.

E, in ogni caso, che si tratti di stranieri può giustificare che si trascuri l’interesse superiore del minore, l’interesse di ogni bambino a vivere con la madre, ma anche in condizioni idonee al suo sviluppo? Le ipotesi sono astrattamente molte e tutte coerenti con i principi del nostro ordinamento che mira alla rieducazione del condannato, non al suo annientamento; per le madri detenute, ad esempio, soprattutto per reati di lieve entità, potrebbe essere applicata la pena alternativa degli arresti domiciliari. O, ancora, potrebbero essere istituite nuove case famiglia, almeno una per regione. E, invece, in questi tempi bui, si va solo alla ricerca di un nemico, di un capro espiatorio, di una leva per la propaganda. E, per rieducare le detenute madri, se ne condannano i figli.

Sophie M. -ilmegafono.org