C’è una strategia evidente, ripetitiva, quasi sfiancante, che ritroviamo in molte occasioni, ma soprattutto di fronte a scontri di piazza o a casi di cronaca che riguardano cittadini di origine straniera o italiani di seconda generazione. L’odio che si sprigiona non appena la tensione sale diventa subito concime per il dibattito politico e oro per la delegittimazione dell’avversario e la fortificazione del consenso. A usare questa strategia è soprattutto la destra, con i suoi protagonisti principali e la schiera di ottusi comprimari, a cui si aggiungono giornalisti al guinzaglio, ma anche, purtroppo, alcuni di quelli che hanno dimenticato i loro virtuosi trascorsi, per scegliere una narrazione più mainstream, diciamo così. La manifestazione di Roma, con gli scontri violenti tra attivisti, antagonisti e forze dell’ordine, così come l’assalto alla Sinagoga di Bologna, tutto ricondotto a una reazione ai recenti sviluppi di indagine sulla morte del giovane Ramy Elgami, hanno scatenato la premier, il governo e i rappresentanti istituzionali appartenenti alle forze di maggioranza.

Giorgia Meloni e i suoi hanno immediatamente condannato le violenze e testimoniato la loro solidarietà alle forze di polizia, con la premier che ha parlato di “facinorosi scesi in piazza non per manifestare per una causa, bensì per puro spirito vendicativo”, aggiungendo che “non si può utilizzare una tragedia per legittimare la violenza”. La Lega, ovviamente, ha fatto persino di peggio, accusando apertamente e indistintamente la sinistra. Matteo Salvini ha definito i manifestanti dei “criminali rossi”, mentre Massimiliano Romeo ha parlato di “atteggiamento irresponsabile e ideologico da parte della sinistra” e di come la “continua delegittimazione dei nostri agenti, alimenta un clima di odio nei confronti delle forze dell’ordine e di conseguente mancanza di rispetto delle regole”. Per il ministro Guido Crosetto si è trattato di “un attacco ingiustificabile e preoccupante alla sicurezza dei cittadini e alle regole di convivenza che sono la base di una democrazia”. Crosetto ha poi auspicato una reazione dura per evitare che “queste persone si sentano più forti dello Stato stesso e delle istituzioni democratiche”.

Infine, non poteva mancare il ministro Matteo Piantedosi, il quale, dopo aver parlato di strumentalizzazione di una “dolorosa tragedia come quella del giovane Ramy” ci ha tenuto a ribadire un concetto: “Dovrebbe essere parte di una cultura condivisa – ha affermato il  titolare del Viminale – la consapevolezza che non fermarsi a un alt o cercare il confronto violento non è solo una grave violazione della legge, ma un comportamento pericoloso per sé e per gli altri”. Bene, a questo elenco, evitiamo di aggiungere anche le sparate di qualche bravo collega un tempo molto stimato, che di recente, in un suo editoriale, ha deciso di sottolineare che Ramy non è una vittima e di rispolverare, in un contesto completamente diverso e fuorviante, il concetto pasoliniano dei poliziotti figli del proletariato. Soffermiamoci, dunque, solo sulle dichiarazioni degli alfieri della destra italiana e della sua rappresentante più in auge in questo momento, e poniamo a questa zelante e reattiva accolita politica cinque domande.

Prima, però, una premessa fondamentale: chi scrive condanna fermamente le violenze e non condivide affatto la scelta di attuare manifestazioni che parlano di vendetta per qualcuno (con striscione annesso) o che sfociano in atti di vandalismo. Non servono e stonano terribilmente con il processo democratico nel quale dovrebbe prevalere sempre la richiesta di giustizia e non di vendetta. Anzi, la vendetta, se proprio dobbiamo dirla tutta, è un concetto fascista e squadrista. Chiarito questo, passiamo alle domande.

La prima è molto semplice: cosa c’entra la sinistra con le manifestazioni e le violenze di Roma e Bologna? Quando e dove hanno sentito, i signori del governo, un esponente delle forze di sinistra rappresentate in parlamento pronunciare parole di odio o di istigazione alla violenza sul caso di Ramy? O forse le richieste legittime di chiarezza sulla dinamica agghiacciante che ha portato alla morte del ragazzo qualcuno le vorrebbe fare passare per tali? Non si può pensare, in alcun modo, che in un Paese democratico, nel quale anche le forze dell’ordine devono rispettare la legge, un comportamento grave come quello che sembrerebbe emergere dai video recentemente resi pubblici possa rimanere senza risposte. E non ha alcun senso la solidarietà incondizionata e ossessiva alle forze di polizia, perché qui non è in discussione l’intero corpo di una forza di pubblica sicurezza, ma il comportamento di alcuni suoi appartenenti. Che vanno giudicati e, nel caso emergessero una grave negligenza o un eccesso criminoso, vanno condannati. Per il bene stesso e la credibilità dell’istituzione di cui sono parte.

Seconda domanda: perché la questione ideologica non viene mai tirata in ballo quando le violenze di piazza vedono protagoniste forze extraparlamentari di ispirazione fascista o nazista? In questo Paese, nel quale lo spazio di dissenso è sempre più ristretto, siamo ormai al paradosso. Sembra essere diventato addirittura normale, ad esempio, identificare le persone che pacificamente urlano “viva la Costituzione”, e lasciare invece impunite quelle che violano la legge, con aggressioni, minacce, disordini, apologia di fascismo.

La terza domanda la rivolgiamo direttamente al ministro Crosetto: non crede che anche gli uomini in divisa che, per negligenza o per qualsiasi altro motivo, causano la morte di un ragazzo, tentando a quanto pare persino un depistaggio, qualora tutto fosse accertato dalla magistratura, debbano essere perseguiti per impedire che si sentano più forti dello Stato e delle istituzioni democratiche alle quali hanno prestato giuramento? Perché la credibilità di uno Stato nasce anche da questo, dalla capacità di dare seguito al principio per cui la legge è uguale per tutti. Sia chiaro, ci saranno un’indagine e un processo a verificare il comportamento di chi, quella notte, sembrava dispiacersi perché quello scooter riusciva a non cadere e poi, una volta che i due ragazzi erano a terra, a seguito della manovra pericolosa di una delle gazzelle, avrebbe avuto come primo pensiero quello di sottrarre il telefono di un passante (oggi testimone) e intimargli di cancellare il video appena girato. La verità, signor ministro, è la sola cosa di cui uno Stato ha davvero bisogno.

La quarta domanda chiama in causa anche il recente passato: perché il governo non ha espresso solidarietà ai familiari di Ramy Elgami? I suoi più importanti esponenti, infatti, hanno preferito prodigarsi da subito per criminalizzare la vittima e schierarsi apertamente con gli operatori di polizia, senza attendere le verifiche di chi su quell’incidente stava indagando. Forse, ascoltare con maturità la rabbia del Corvetto, sia quella inizialmente furiosa dei più giovani e degli amici, che soprattutto quella composta e dignitosa della famiglia, invece di gettarsi a capofitto nella trita strategia di strumentalizzazione politica, avrebbe permesso di capire che i sospetti e le accuse su una dinamica quantomeno colposa dei carabinieri non erano campate in aria. E che magari qualcuno sapeva già, essendo probabilmente a conoscenza della versione di chi ne è stato testimone.

Infine, l’ultima domanda è per il ministro Piantedosi, ma vale per tutti gli altri volti di questa destra barbarica e scomposta: quando e in quale ordinamento è stato sancito che non fermarsi all’alt preveda la morte di chi compie il reato? Le forze dell’ordine possono mettere a rischio l’incolumità altrui solo nel caso di legittima difesa, cioè solo quando viene palesemente minacciata la propria vita o quella dei cittadini. Sappiamo benissimo che ci sono tanti modi per arrivare a chi compie un reato senza procurarne la morte, come dimostrano i tanti inseguimenti che si svolgono in diverse città italiane e non si concludono in tragedia. Peraltro, suggeriamo a tutti coloro i quali criminalizzano la vittima che Ramy non è responsabile della forzatura dell’alt dei carabinieri, perché non guidava lui. E chi inseguiva lo scooter e cercava di farlo cadere aveva l’obbligo di preoccuparsi anche dell’incolumità del passeggero, ossia Ramy, visto che non era responsabile del reato.

Ecco perché, signor ministro Piantedosi, il principio del “comportamento pericoloso per sé e per gli altri”, in questo caso dovrebbe menzionarlo con riferimento al conducente dello scooter e ai carabinieri impegnati nell’inseguimento, non di certo a un ragazzo che, per negligenza altrui, non può più risponderle. Ed è per quel ragazzo e per questa stortura democratica, che il governo Meloni difende senza se e senza ma, senza il minino dubbio, che la famiglia Elgami e una parte di questo Paese chiedono giustizia e verità. E questa non è una questione politica o di istigazione all’odio, ma di rispetto della democrazia e di quei valori che dovrebbero appartenere a uno Stato civile, indipendentemente da chi lo guida. Più o meno degnamente.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org