Nessuno sa quando la morte decide di arrivare. Ma quando arriva inaspettata e violenta, quando si prende un ragazzo di 33 anni nel pieno della vita, cooperante e attivista impegnato in Colombia nella difesa dei diritti umani, e tutti si affrettano a giurare che si tratta di un suicidio, allora c’è qualcosa che non torna, c’è una verità che tutti abbiamo il diritto e il dovere di pretendere. Mario Paciolla era un ragazzo di Napoli, una laurea in Scienze Politiche in tasca e mille ideali nel cuore. Parlava le lingue straniere e aveva portato a Napoli la bellezza del “Cafè Babel”, la rivisita europea fondata sul principio del giornalismo partecipativo, che permette di scrivere nella propria lingua gli articoli che verranno poi ripresi e tradotti in 6 lingue da giornalisti professionisti. Chi lo conosceva lo definiva un “costruttore di pace”: la campagna “Io sono italiano”, a sostegno degli immigrati di seconda generazione a cui viene negato il diritto di cittadinanza, lo vede protagonista attivo.

Poi, un giorno, Mario decide che quella “costruzione di pace” che a Napoli funziona può essere messa a disposizione anche di quella parte di mondo che ne ha bisogno. Lascia la sua città, parte ed entra come volontario nella “Peace brigades international”, organizzazione non governativa internazionale per i diritti umani, e nel 2018 inizia la sua collaborazione con le Nazioni Unite: diventa osservatore internazionale in Colombia, il suo compito è monitorare e verificare l’applicazione degli accordi fra governo e le forze armate rivoluzionarie della Colombia, le FARC.

Il 15 luglio 2020 la storia di Mario Paciolla si interrompe: il suo corpo senza vita viene trovato nella sua casa a San Vicente del Caguán, impiccato e con ferite ai polsi e al collo. L’Onu si affretta fin dal primo momento a parlare di suicidio, più precisamente di una “morte autoinflitta”. La fredda telefonata di una persona, che si qualificava come un’avvocata dell’Onu, informava la famiglia poche ore dopo. Per la famiglia stessa, per gli amici più intimi e per chi conosceva Mario questa ricostruzione non è né credibile né accettabile, anche in considerazione del fatto che Mario aveva deciso e comunicato la sua decisone di tornare in Italia, nella sua Napoli, prima della scadenza del suo mandato e del suo contratto. Aveva già un biglietto aereo per il 20 luglio e aveva già iniziato a spedire le valigie. Perché allora decidere di suicidarsi? Perché questa fretta delle Nazioni Unite nel sostenere, pubblicamente e prima di ogni indagine, la tesi del suicidio?

Sono molti gli elementi che non convincono e, fra questi, il primo e il più strano è il comportamento dell’allora responsabile della sicurezza della Missione a San Vicente, Christian Thompson, il primo ad entrare nella casa di Mario: perché, contrariamente ad ogni procedura standard, ha deciso di ripulire la stanza con la candeggina e distruggere ogni oggetto all’interno della stanza stessa? Una decisione autonoma, oppure concordata con livelli più alti delle Nazioni Unite o addirittura richiesta e imposta? È importante ricordare che la stessa polizia colombiana è stata indagata per aver consentito a Christian Thompson tutto questo. Non è tutto: il dato più inquietante di questo comportamento è che lo stesso Thompson è stato in passato un sottufficiale dell’esercito colombiano e che, in seguito, sarà promosso a capo del National Security Center della Missione Onu in Colombia.

Le domande e i lati oscuri continuano: i familiari di Mario denunciano come l’autopsia sia stata effettuata dalle autorità colombiane senza la presenza di un medico legale, ma solo alla presenza di un funzionario dell’ONU, e che le pessime condizioni in cui il corpo di Mario è stato riconsegnato hanno reso problematici ulteriori esami. Come e perché è stato possibile? Perché quel terribile patto di silenzio fra le autorità colombiane, l’ONU e l’ambasciata italiana rimasta in disparte? Di cosa si occupava Mario Paciolla? Quel suo ruolo di osservatore internazionale sugli accordi tra il governo colombiano e il gruppo guerrigliero FARC-EP, firmati a L’Avana nel 2016, e la sua attività negli anni precedenti all’interno del movimento “Peace brigades international” per la difesa dei diritti umani, gli ha permesso sicuramente di conoscere molti aspetti della Colombia, anche quelli più delicati.

Il 29 agosto 2019 ad Aguas Claras, nel municipio di San Vicente del Caguán, un bombardamento contro l’accampamento FARC di Rogelio Bolívar Córdova, alias Gildardo el Cucho, causò la morte di sette ragazzi minorenni. Mario venne incaricato insieme ad altri di verificare e documentare le circostanze del bombardamento, in particolare la morte degli adolescenti. Quel bombardamento innescherà una serie di cambiamenti a livello governativo e all’interno della missione ONU. È in questo contesto che Mario comincia a sentirsi “tradito” e “usato”, anche all’interno della missione. È in quel contesto che decide di eliminare ogni sua traccia social sulla rete.

Il ritratto che esce dalla sua attività dimostra chiaramente come Mario non poteva essere inquadrato come un ingenuo sognatore, la sua esperienza nelle zone di conflitto internazionali faceva di lui un professionista della cooperazione internazionale. A testimoniare in questo senso ci sono i tanti articoli e le tante analisi socio-politiche scritte da lui e pubblicate sotto pseudonimo dalle più importanti riviste internazionali. Dopo la sua morte molti giornalisti scrissero di lui, veri e atti d’accusa rivolti all’ONU. Stephan Kroener, ad esempio, giornalista tedesco esperto di politica colombiana disse: “L’Onu aveva il dovere di accompagnare il corpo di Mario e consegnarlo ai suoi genitori, parlare con loro e spiegare cosa pensavano fosse successo. Il silenzio è complice e in questo caso il silenzio mostrato dall’Onu davanti alla famiglia e agli amici di Mario è una vergogna per l’intera organizzazione”.

Claudia Julieta Duque è una giornalista investigativa e attivista per i diritti umani, grande amica di Mario. Dal 2001, in seguito alle sue inchieste sui casi di desaparicion, di reclutamento e infiltrazione di gruppi paramilitari negli apparati statali, è stata vittima di minacce che l’hanno costretta ad abbandonare la Colombia. Dopo la morte di Mario denunciava il silenzio dell’Onu che invitava i suoi collaboratori a non rilasciare interviste. Claudia scrisse una lettera-articolo intensa e lunghissima.

Qui di seguito, ne riportiamo alcuni passi: “…L’Onu è restata in silenzio. Ed è questo silenzio, indegno per te e per la nostra realtà, che mi obbliga a scrivere, a cercare di sciogliere con le parole il nodo che mi stringe la gola da quando ho saputo che una corda ha soffocato la tua, fino a lasciarti senza vita la notte di mercoledì 15 luglio…Qualche settimana fa avevi sbloccato il lucchetto che assicurava la recinzione del tetto che dava sulla terrazza del piccolo edificio dove vivevi, in ottica preventiva, nel caso “che qualcuno” venisse a cercarti. È lì dove ti hanno trovato? ‘Vedi Napoli e poi muori’, mi ripetevi sempre questa malinconica frase per sottolineare la promessa che ci eravamo fatti nel 2018… al tuo ritorno in Italia sarei venuta a trovarti. No. Non credo alla tesi del suicidio …Mi fai male al cuore, Mario Paciolla. Da brigatista mi hai salvato la vita. Oggi c’è solo un modo per saldare questo debito: cercare la verità sulla tua morte”.

Claudia Julieta Duque riceve nel 2020 il “Pimentel Fonseca”, il premio del festival internazionale di giornalismo civile “Imbavagliati”, per l’impegno e il coraggio dimostrato nelle inchieste volte a fare luce sulla morte del suo grande amico, al quale dedica il premio. Eppure, nonostante i vergognosi silenzi dell’ONU e del governo colombiano, il 19 ottobre 2022 la Procura di Roma accettava la ricostruzione dei fatti e chiedeva l’archiviazione del caso. L’archiviazione viene respinta dal GIP il 9 novembre 2023, ma il 15 giugno scorso la stessa Procura della Repubblica ha chiesto nuovamente l’archiviazione ritenendo che non esistono validi motivi per riaprire le indagini.

Cosa resta, oggi, di Mario Paciolla, cosa rimane oltre ai silenzi vergognosi dell’ONU, della Colombia e delle istituzioni italiane? Restano la rabbia e quel bisogno di giustizia dei familiari, degli amici di Mario e della società civile. Resta l’associazione “Giustizia per Mario Paciolla” che mantiene viva la memoria e lavora per mettere pressione alle istituzioni e spingerle a chiedere quella verità nascosta nelle ragnatele dell’ONU e della politica internazionale. Restano la rabbia e l’amarezza della similitudine con la storia di Giulio Regeni, due storie dove l’indagine e la giustizia sono proibite. Resta quel murale di Jorit, al quale i genitori di Mario hanno chiesto di restituire alla città di Napoli il sorriso di un ragazzo che costruiva la pace e che da Napoli era partito con i suoi ideali puri, con destinazione Colombia.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org