La brutta storia del CPR di via Corelli a Milano continua e si arricchisce di nuovi particolari che evidenziano, in maniera sempre più marcata, le gravi responsabilità di un’intera catena di comando. Dopo anni di denunce pubbliche, e di assordanti silenzi delle istituzioni, il 1° dicembre di quest’anno la Procura di Milano ordina alla Guardia di Finanza di entrare nel CPR. Diventa così di dominio pubblico tutto quello che avveniva all’interno di quel girone dantesco, ma legalizzato dallo Stato, la cui gestione è totalmente a carico della società “Martinina Srl”. Facciamo un passo indietro di pochi giorni: Claudio Sgaraglia è il nuovo Prefetto di Milano e sostituisce Renato Saccone, che dopo cinque anni arriva alla pensione e lascia l’incarico. Il 17 novembre 2023, però, la prefettura di Milano compie il suo ultimo atto e rinnova il contratto di gestione del CPR alla società “Martinina”. La firma sul rinnovo avviene il 1° dicembre, lo stesso giorno in cui la Gdf entra nel CPR. Paolo Storari e Giovanna Cavalleri, i pubblici ministeri titolari dell’indagine, dispongono allora il sequestro impeditivo d’urgenza della società “Martinina Srl”.
Il 15 dicembre, al Palazzo di Giustizia di Milano, si tiene l’udienza sulla richiesta della misura interdittiva alla società “Martinina” di accedere in futuro ad altre gare d’appalto per la gestione del centro. Il sequestro del ramo d’azienda della società blocca di fatto la gestione del CPR da parte dell’azienda stessa, ma “senza però determinare la cessazione del CPR, con l’immissione in possesso di un amministratore”. Per ora non si può quindi ancora parlare di una chiusura del Centro di Permanenza per il Rimpatrio, e non è ancora chiaro cosa succederà nel breve termine. Mentre all’interno del Palazzo di Giustizia si svolge l’udienza, la rete “Mai Più Lager – No ai CPR” organizza, davanti allo stesso palazzo, una conferenza stampa durante la quale l’Associazione Naga annuncia la decisione di costituirsi parte civile se, in seguito alle indagini della Procura della Repubblica di Milano, si arriverà ad un processo, e di attivarsi per offrire il supporto legale necessario a chi in questi anni è stato trattenuto nel CPR.
Intanto, proprio ieri, 21 dicembre, il gip di Milano Livio Cristofano, accogliendo la richiesta dei pm e convalidando il sequestro preventivo d’urgenza, ha deciso il commissariamento del CPR e, con un ulteriore provvedimento, ha disposto anche il divieto per la “Martinina” di contrattare con la pubblica amministrazione. La storia del Cpr di via Corelli è ancora lontana da una soluzione ma qualcosa di importante sta avvenendo. L’auspicio è che possa essere la chiusura del centro. Una chiusura che non deve e non può riguardare solo la città di Milano e il suo lager, ma tutti i centri esistenti nel Paese.
Nel report del 2022 redatto dal parlamentare De Falco, dalla rete “Mai Più Lager – No ai CPR” e dall’associazione Naga, si affermava che “i CPR sono la chiusura del cerchio di un preciso progetto di razzismo istituzionale di costante respingimento e rifiuto, che pretende di sanzionare con la privazione della libertà individuale un mero illecito amministrativo”. E di questo si tratta, perché la privazione della libertà personale non è conseguenza di un reato. Inoltre, questa privazione viene affidata a società private che gestiscono e tutelano solo il loro interesse economico. C’è, come detto all’inizio, un’intera catena di comando che dalla gestione dei CPR scompare subito dopo aver assegnato il compito alla società che si aggiudica il bando della gestione. Ministero dell’Interno, prefettura, questura diventano assenti ingiustificati.
Il punto non è quindi cambiare la società che gestisce il Centro di Permanenza per il Rimpatrio – prima cooperative, poi società e ora anche multinazionali – ma smantellare un sistema che toglie ogni libertà a chi non ha commesso alcun reato. Il centro di via Corelli a Milano è solo la punta della montagna della vergogna, ma non è l’unica. Cosa succede nel centro di Gradisca d’Isonzo e negli altri CPR? La rivolta di questi ultimi giorni a Gradisca è stata un breve flash nei telegiornali, il vicepremier e leader della Lega, Matteo Salvini, l’ha liquidata con poche e squallide parole: “Solidarietà alle forze dell’ordine e al personale di vigilanza. Non può esistere tolleranza nei confronti di chi pensa di portare fuoco e violenza in casa nostra. Espulsione immediata”.
Dal 2018 a oggi lo Stato italiano ha speso decine di milioni di euro per la detenzione di centinaia di migranti richiedenti asilo e rinchiusi nei CPR per essere rimpatriate. La dinamica che soffoca la vita di chi finisce in questi centri sviluppa e alimenta quella filiera che arricchisce chi annienta i diritti: i migranti perdono tutto e sempre, mentre i gestori ottimizzano i loro profitti. Questo in un Paese il cui ordinamento non contempla la privatizzazione delle carceri, ma nutre il business e il mercato della detenzione. È così che autentiche multinazionali del settore gestiscono tali strutture, in Italia e all’estero, nonostante le importanti inchieste giudiziarie che le vedono coinvolte. Perché allora questa catena di comando non si interrompe? Non può bastare accertare le responsabilità di chi gestisce in modo criminale i CPR, occorre un passo in più. Difficile accettare che un prefetto uscente decida di rinnovare un contratto milionario – ben oltre i quattro milioni di euro per un anno di gestione – ad un ente privato su cui da sempre piovono accuse gravissime e motivate. Difficile capire come sia possibile che quella firma sul contratto sia stata messa proprio lo stesso giorno in cui la Procura di Milano ordinava un’ispezione alla Guardia di Finanza.
Ci sono allora anche altre responsabilità ancora più in alto, su cui la magistratura dovrà fare luce e sono quelle di chi, in prefettura e a livello centrale, avrebbe dovuto vigilare e non lo ha fatto. E questo è molto più difficile, perché quella catena di comando è parte integrante di un sistema potente e oliato su cui si regge un potere che ha costruito il suo consenso sulla lotta contro i migranti e, su quella lotta, ha stretto legami e alleanze in Italia e in Europa: il migrante come nemico, la sicurezza, la difesa dei confini e della razza contro la sostituzione etnica. Questo è l’anello più forte della catena di comando, quello che non si può spezzare perché altrimenti crolla il palazzo. Se per mantenere in piedi il palazzo si devono stringere accordi con soggetti privati carenti di ogni scrupolo non importa a nessuno. Se necessario si fanno accordi e si firmano trattati con Paesi dove il diritto non esiste, si chiamino Libia o altro non importa nemmeno questo. Un sistema che, un giorno alla volta, ha fatto breccia nella mente di una grande parte di questo Paese.
Ecco allora che i CPR entrano nel gioco sporco della “normalizzazione” della gestione dei migranti e diventano accettabili agli occhi di una larga fetta dei cittadini, tenuta volutamente distante dalle vergogne di un sistema politico e lontana dal capire il buco nero in cui precipitano i concetti di integrazione e accoglienza, di democrazia. È un lavoro di distrazione di massa che la catena di comando persegue quotidianamente. In quanti oggi ricordano la tragedia di Cutro e le parole con cui il ministro degli Interni e l’intero governo hanno trattato quella tragedia? Che i respingimenti e i CPR siano incompatibili con i principi di umanità e democrazia diventa di conseguenza un aspetto secondario rispetto al clima di indifferenza che questo sistema ha prodotto.
La catena di comando alimenta tutto questo, gli interessi politici spingono a combattere i migranti e chiunque si frapponga a questo disegno. Non si spiegano altrimenti le violente campagne contro le ONG, la decisone del governo di aprire nuovi CPR, gli accordi con Paesi stranieri fino all’ultimo impegno firmato con l’Albania. La brutta storia dei CPR continua, camminando accanto a quel processo di selezione sociale e di discriminazione etnica lungo quella strada che ha un solo nome: razzismo.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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