La decisione della Corte di Appello di Reggio Calabria, che ha smontato e ribaltato la sentenza di condanna a 13 anni e due mesi, emessa nel 2021 dal Tribunale di Locri contro Mimmo Lucano, è un atto di giustizia. La notizia, arrivata l’11 ottobre scorso, è stata salutata come una liberazione, innanzitutto da Mimmo Lucano, quindi da tutto coloro i quali lo hanno sostenuto, accompagnato e difeso, sia nelle aule giudiziarie sia all’interno della società civile. Lucano è stato assolto da tutte le grottesche incriminazioni costruite dal pm Permunian e dal procuratore di Locri, Luigi D’Alessio: respinta anche la richiesta a 10 anni e 5 mesi fatta della Procura generale. Insomma, il castello di fango, alla fine, è crollato, lasciando in piedi solo una condanna a un anno e mezzo, con pena sospesa, per un risibile reato amministrativo, una presunta falsa delibera. Cadono invece tutte le altre accuse e vengono assolti anche gli altri imputati, disintegrando la ridicola ipotesi dell’associazione a delinquere.

Per qualcuno, forse animato da pessimismo, questa notizia è stata una gioia inattesa, qualcosa di insperato. In realtà, era un esito prevedibile. L’unico ostacolo era il tempo, l’attesa. Perché che Mimmo Lucano fosse innocente lo si sapeva. Dal giorno dopo il suo arresto, sin dalla lettura delle 132 pagine dell’ordinanza, anche IlMegafono.org ha raccontato e sottolineato l’imbarazzante condotta delle indagini da parte delle forze dell’ordine, gli strafalcioni, le manifeste incoerenze, l’inesistenza di prove degne di essere definite tali, le interpretazioni soggettive e fantasiose. Non a caso, su 12 capi di imputazione, ne vennero accettati giusto un paio. Chi ha seguito dal principio questa vicenda, ha sempre atteso il momento finale, anche quando alcuni organi di giustizia forzavano ulteriormente la mano, con condanne spropositate, surreali, clamorosamente ingiuste al punto da svelare la loro debolezza. Il castello di fango costruito, con il contributo importante della politica, attorno a Lucano, era destinato a crollare, perché le fondamenta erano di burro.

Le condotte contestate all’ex sindaco di Riace non avevano alcun rilievo penale, non c’erano prove di arricchimento personale, non c’era alcuna logica di potere o di costituzione di un sistema delinquenziale. Riace era un modello ammirato in tutto il mondo, con i suoi meccanismi virtuosi e i problemi che erano in gran parte creati dalla ostilità dei governi italiani, soprattutto di quei ministri che si trovavano nudi con la loro pochezza dinnanzi alla capacità irritante (per loro) che quel modello aveva di creare interazione, lavoro, convivenza, legalità, solidarietà e bellezza. Da un lato Riace, con il suo infaticabile sindaco, dall’altro i Minniti e i Salvini con la loro propaganda anti-migranti, con la loro linea disumana e xenofoba, con i loro fallimenti e i loro stormi di sottosegretari bizzarri, alcuni più propensi a credere alla tesi complottista dell’inesistenza dello sbarco sulla Luna che all’onestà manifesta di Lucano. A Riace, il primo colpo lo hanno dato proprio i governi, quello di centrosinistra prima e quello di destra e 5 stelle poi. Hanno chiuso i rubinetti, hanno messo un macigno sugli ingranaggi che permettevano al piccolo centro calabrese di far funzionare il meccanismo virtuoso, quello che prevedeva un’economia di scambio.

Mentre tutto il mondo elogiava e studiava il modello Riace, infatti, i governi italiani bloccavano i fondi che permettevano di pagare fornitori, lavoratori, esercizi commerciali che erano il cuore del sistema di accoglienza. Mandandolo in default e punendo una comunità locale che si stava risollevando. A questo contesto politico, che in breve tempo è diventato gogna, ha dato nutrimento la Procura di Locri, che ha continuato incessantemente a costruire un impianto accusatorio farlocco, basato sul nulla, ignorando la verità, snobbando il fatto che Lucano non abbia mai preso denaro per sé o per un familiare o un amico. Ha continuato nonostante le pronunce avverse del tribunale del Riesame di Reggio Calabria e della Corte di Cassazione, che hanno sottolineato l’assenza di condotte penalmente rilevanti, l’inconsistenza delle accuse e l’assenza di riscontri a quelle accuse, basate per lo più su congetture e interpretazioni artificiose. Non si sono preoccupati, gli accusatori, dell’inattendibilità (certificata dal Tribunale del Riesame di Reggio Calabria) del commerciante di Riace dalle cui dichiarazioni è partita l’indagine.

Al di là degli obbrobri giudiziari, c’è poi anche una questione morale e di opportunità, che risalta moltissimo specialmente in questo periodo in cui, da una certa parte politica, si odono strali e urla raccapriccianti sulla condotta dei magistrati e sull’opportunità di esprimere, con opinioni o gesti, il proprio orientamento sui diritti degli esseri umani. Strali e urla che invece non si udirono quando il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio, andò in tv già dopo l’arresto di Lucano a parlare esprimendo condanna, emettendo già una sentenza morale sul modello Riace e sulle azioni del suo allora sindaco, nonostante non vi fosse ancora nemmeno un processo in corso né l’esito di un qualsiasi grado di giudizio. E non s’udirono strali o urla nemmeno quando lo stesso D’Alessio, dopo la condanna a 13 anni emessa dal Tribunale di Locri, definì pubblicamente Lucano “un bandito da film western”. Silenzio totale da parte di quell’area politica, abbastanza ampia, che invece si sfregava le mani davanti alla fine di quel modello e alla parabola discendente di chi lo aveva ideato e rappresentato.

Una parabola che, però, grazie agli anticorpi della democrazia, di cui la magistratura fa parte, è stata fermata. Ed era ovvio che sarebbe finita così. Per tutto ciò di cui sopra, perché Mimmo Lucano non si è appropriato di denaro, né lo ha distribuito a cerchie amicali o parentali, perché Mimmo Lucano non ha mai accresciuto il suo potere e il suo consenso elettorale, né ha costruito una carriera politica attraverso Riace, rifiutando anzi più volte candidature blindate che gli avrebbero garantito anche maggiore tutela e impunità. Mimmo si è fatto giudicare, consapevole della sua onestà e della sua solidità morale. Ha atteso, ha vissuto tutto il dolore della detenzione, del divieto di dimora, del fango, sostenuto innanzitutto dai suoi ideali puri. E forse, è proprio quello che gli hanno fatto che lo spingerà a riprendere la sua azione politica, con ancora più forza. Perché alla fine, quando ti vogliono distruggere, ma sei un uomo verticale, finiscono con il rafforzarti. Rafforzare te e il tuo pensiero, la tua idea di mondo.

Adesso, in tanti dovrebbero chiedere scusa, ma conterebbe poco, perché solo le persone dalla retta morale e dalla trasparente dignità sono capaci di chiedere scusa. E in questa storia, ricca di uomini grigi e di costruttori di fango, è difficile trovare determinate qualità tra i detrattori di Mimmo. Ed è anche per questa enorme distanza umana tra l’accusato e gli accusatori e denigratori, che assume ancora più evidenza la forza di Mimmo Lucano. Che ora potrà tornare a far politica attiva. Perché al di là delle scuse (che non arriveranno mai), delle timidezze di chi ha taciuto per opportunità politica (e anche scarsa lungimiranza, se vogliamo ragionare cinicamente) e del conto per le evidenti forzature giudiziarie che nessuno pagherà, rimane una sola certezza, quella che ci ha accompagnato in tutti questi anni: che Mimmo Lucano avrebbe vinto questa battaglia. E alla fine, Mimmo ha vinto. Su tutto. Su tutti.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org