C’è un problema, evidente ma ignorato, in questo Paese. Un tabù di fronte al quale manca il coraggio di una discussione libera e indipendente, pubblica e aperta: il modo in cui operano e agiscono le forze dell’ordine. Un brutto incantesimo che nessuno vuole rompere, per complicità e per opportunismo politico, che resta imprigionato nella favola ipocrita e assolutoria delle “mele marce”. Ma quante sono le mele marce e, soprattutto, quanto è grande e potente la cesta che le contiene e le protegge? È una storia vecchia, che questo Paese conosce da troppo tempo. Ma le mele, buone o marce che siano, crescono sugli alberi e gli alberi hanno radici. Quelle radici affondano nel tempo, da Genova a Reggio Emilia. alla questura di Milano negli anni ‘60, e si nascondono nella casa di quelle istituzioni che chiedono fiducia incondizionata ai cittadini dimenticando che la fiducia e la credibilità si devono conquistare. Gli ultimi casi si chiamano Milano, Livorno e Verona e sono il segnale che questa volontà di conquistare fiducia e credibilità non esiste e, semmai esistesse, è ancora troppo lontana.

È una mattina di fine maggio, davanti alla biblioteca dell’Università Bocconi a Milano c’è una persona sul marciapiede, ferma e con le mani alzate. Intorno a lei un gruppo di agenti della Polizia locale, che la colpiscono ai fianchi e in testa con calci e manganelli, le spruzzano in faccia lo spray al peperoncino, poi la ammanettano e la caricano sull’auto. Qualcuno ha ripreso la scena e il video viene diffuso. Per questo, e solo per questo, le immagini non lasciano alcuna possibilità di essere smentite. La Procura apre un’inchiesta nei confronti degli agenti coinvolti nel pestaggio, la Polizia locale apre un’indagine interna, mentre la donna viene denunciata per resistenza a pubblico ufficiale.

Pochi giorni dopo è la volta di Livorno e, anche in questo caso, è il filmato di un cittadino a far conoscere l’accaduto: le immagini mostrano una violenza che non può avere alcuna giustificazione. L’Arma dei Carabinieri, secondo quanto riportato da LaPresse, afferma che “tale condotta non è assolutamente in linea con i valori dell’Arma. Il comportamento del militare verrà giudicato immediatamente con il massimo rigore sotto ogni aspetto, a partire dal trasferimento istantaneo ad un incarico non operativo”. E ancora, il più recente: Verona, 6 giugno 2023. Vengono disposti gli arresti domiciliari per un ispettore e quattro agenti del Nucleo Volanti della Questura di Verona, per le violenze compiute all’interno della questura, con in più l’aggravante dell’odio razziale per due di essi.

Parole, indagini interne che praticano e conservano la prassi autoreferenziale di lavare i panni sporchi in famiglia e ostile verso ogni controllo esterno, e una spiccata tendenza a difendere i propri agenti anche mentendo. Davvero qualcuno pensa che possano cadere nel dimenticatoio i tanti episodi che hanno coinvolto le forze dell’ordine in questi decenni? No, non è possibile. Troppo gravi e troppo recenti sono i fatti che dimostrano che in Italia il problema esiste: i giorni del G8 di Genova del 2001, con la macelleria nella scuola Diaz e dentro la caserma di Bolzaneto, sono stati definiti da Amnesty International come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”.

La vita di Federico Aldrovandi stroncata in mezzo a una strada di Ferrara nel 2005, quella di Stefano Cucchi nel 2009 mentre era nelle mani dello Stato sono ferite mai cicatrizzate. G8 di Genova, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi: storie e nomi simbolo che nessuno può dimenticare, la punta di una piramide di violenza che non deve far passare sotto silenzio la situazione esplosiva delle carceri dove alcuni casi sono finiti alla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo. Troppo recenti le violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nel 2020: per quei fatti sono coinvolte decine di persone, tra agenti della Polizia penitenziaria e funzionari. Anche in questo caso le accuse sono di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico (leggi qui).

Il 22 luglio del 2020, a Piacenza, esplode il caso della “Levante”, la caserma dei Carabinieri definita dal Giudice dell’Udienza Preliminare “una zona franca di prassi degenerate”. I Carabinieri coinvolti sono stati condannati per spaccio di droga, abuso d’ufficio, tortura. Accanto a tutti questi fatti esiste infine la ragnatela di episodi quasi quotidiani, come quelli recenti di Milano, Livorno, Verona. L’uso della forza che lo Stato assicura alle forze dell’ordine diventa l’arma che spesso si rivolta contro i cittadini. In ciascuno di questi eventi emerge un fattore comune, grave e preoccupante: la difesa ad oltranza dei protagonisti da parte dei vertici, una catena di comando che gioca le carte del depistaggio e dell’omertà fra colleghi. Esemplari in questo senso i casi del G8 di Genova, di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. Depistaggi e false deposizioni, emerse fin dal primo momento ma crollate solo nel corso degli anni.

Appare del tutto evidente come all’interno dei singoli corpi delle forze dell’ordine si ripetano i casi di coperture verso comportamenti violenti, che non vengono segnalati o che, quando avvengono, comportano l’isolamento e/o l’allontanamento di chi segnala e denuncia. È una forma deviata di cameratismo e di appartenenza, che sfocia nell’omertà e quindi nella connivenza. È il sistema che si autodifende e può permettersi, lui, di indagare su se stesso, in virtù del fatto che mancano normative di procedura penale che lo impediscano. È così che, ogni volta, si riparte dal punto zero, con il sostegno di una parte consistente della classe politica che non considera un problema gli abusi commessi da chi veste una divisa in nome dello Stato e che, troppo spesso, identifica invece come problema quelle leggi che hanno il compito di impedire e sanzionare quegli abusi.

Come considerare altrimenti la proposta di legge presentata dai parlamentari di Fratelli d’Italia, con cui si chiede di abolire il reato di tortura? Reato, è bene ricordarlo, introdotto in Italia solo nel 2017, con grave ritardo rispetto alla firma della Convenzione Onu del 1984. I parlamentari firmatari della proposta sostengono, nella loro relazione introduttiva, che l’abolizione del reato permetterebbe di “tutelare adeguatamente l’onorabilità e l’immagine delle forze di polizia”. Chiedere l’abolizione del reato di tortura non è solo scioccante, è vergognoso: per la democrazia, per i cittadini di uno Stato e per le stesse forze dell’ordine che dovrebbero essere le prime a tutelare la propria immagine, punendo ed emarginando quelle che vengono definite come “mele marce”. Eppure, proprio le forze dell’ordine – la base, i sindacati ed i vertici istituzionali – sono da sempre contrarie ad ogni richiesta di leggi adeguate: dal reato di tortura all’introduzione dei codici identificativi per le forze di polizia impegnate in operazioni di ordine pubblico, come richiesto del Parlamento europeo il 12 dicembre 2012. E sono anche le prime ad attaccare duramente chi osa chiedere verità e giustizia.

Come dimenticare gli attacchi a cui sono state sottoposte a loro tempo Ilaria Cucchi e Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi? Come dimenticare il presidio, regolarmente autorizzato e organizzato dal Coisp, sindacato delle forze dell’ordine, sotto l’ufficio di Patrizia Moretti all’indomani della sentenza? Come dimenticare i 5 minuti di applausi scroscianti che i delegati del Sap – il Sindacato Autonomo di Polizia, che vanta migliaia di iscritti – riuniti a Rimini per il Congresso nazionale, riservarono agli agenti condannati in via definitiva per la morte di Federico Aldrovandi? Lo stesso clima di attacco alle vittime e ai loro familiari, e di difesa strenua dei violenti in divisa, viene portato avanti da quella classe politica che individua e addita come nemico delle forze di polizia chiunque chieda riforme e giustizia sulle violenze compiute: Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, è stata per anni il bersaglio delle violenze verbali di esponenti delle istituzioni, parlamentari e ministri compresi.

Ecco perché, di fronte a questo scenario, è vergognoso minimizzare parlando di “mele marce”. C’è un problema, grande e irrisolto, che lo Stato e le sue istituzioni, il parlamento stesso e i governi di oggi e di domani, hanno l’obbligo e il dovere di risolvere una volta per tutte. Sta solamente a loro dimostrare di volerlo fare e di esserne capaci.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org