È lieta la novella di pochi giorni fa che il Mose ha “salvato” Venezia da un tragico allagamento. Ottime notizie per chi, questa settimana, si sta dirigendo in laguna per la chiusura della tanto chiacchierata Biennale d’arte “Il Latte dei Sogni”. Giunta alla sua 59° edizione, la manifestazione culturale più antica e longeva del nostro Paese ha riservato, anche quest’anno, non poche sorprese. Sicuramente maggior attenzione meritano tutti gli artisti non occidentali che, contemporaneamente, escono dalle retoriche visive stantie che ormai da decenni affliggono i “nostri” artisti. Anche se è difficile per una istituzione secolare come la Biennale di Venezia scardinare del tutto la forma mentis colonialista sulla quale è stata fondata.
A proposito di colonialismo, piacevolmente sorprendente e coinvolgente il Padiglione della Nuova Zelanda. Un ambiente immersivo proietta lo spettatore in una grande agenzia di viaggi che promuove soggiorni nelle isole pacifiche con grandi manifesti fotografici, dai colori saturi e brillanti, che ritraggono persone non-binarie che indossano i tipici abiti tahitiani, immerse in foreste con alberi e piante dalle grandi foglie. Se la descrizione vi ha fatto venire in mente le pitture tahitiane di Paul Gauguin di fine ‘800, sappiate che era proprio quello l’intento dell’artista Yuki Kihara. Da un lato riappropriazione culturale, dall’altro denuncia sociale e apertura al contemporaneo. Così come veramente d’impatto è il padiglione della Repubblica del Kosovo che, grazie alla maestria di Jakup Ferri, presenta in chiave fanciullesca tappeti e dipinti di “Outsider Art”.
Con Outsider Art si intendono tutti quegli oggetti artistici creati da chi sta al di fuori del mondo istituzionalizzato dell’arte: può essere il disegno di un bambino, come una ceramica di un paziente di un’istituto di igiene mentale, o il dipinto su cartone di un senzatetto. Il mondo dell’arte ha sempre avuto fascino per questi particolari tipi di manufatto che viaggiano parallelamente a tutto ciò che è sempre stato considerato istituzionale, ma solo da qualche anno l’arte degli “outsider” inizia ad essere realmente presa sul serio. Altre menzioni speciali vanno sicuramente alla casa del duo Skuja-Bradenalle del padiglione della Lettonia, le cui ceramiche femministe ci fanno entrare in uno spazio intimo e personale, come entrare letteralmente dentro la testa di qualcuno e poterne vedere i pensieri sotto forma di oggetti.
Ma merita anche il Libano, che non perde l’occasione per mostrare al mondo intero la sofferenza e la devastazione presenti da anni nel Paese, con un padiglione diviso in due: da un lato, una video-testimonianza raccontata da coloro che quella sofferenza e quella devastazione la vivono sulla loro pelle, dall’altro, un corridoio il cui lato esterno sembra la parete di una strada dismessa, con neon ballerini, reti arancioni di plastica da lavori in corso, impalcature apparentemente instabili, graffiti, specchi parabolici da traffico rotti, mentre, dal lato “interno” del corridoio, un piccola baracca del tutto sigillata, se non per una piccola finestrella illuminata che dentro svelava altri materiali da cantiere. In bilico continuo tra il caos e la rinascita, senza saper trovare un equilibrio. Il Perù, invece, racconta la storia della dittatura subita e della liberazione ottenuta grazie alle proteste del Sendero Luminoso negli anni ‘80, attraverso le opere di Herbert Rodriguez, artista e attivista che partecipò in prima linea alla rinascita del Paese.
Al di là delle cose belle e meno belle, emozionanti o meno, al di là delle polemiche che hanno accompagnato anche questa edizione, dalla sua inaugurazione fino alla chiusura, e non hanno risparmiato nessuno, la verità che si sa ma non si dice ad alta voce è che Venezia sta rischiando di affondare. E per quanto il Mose abbia questa volta fatto il suo dovere, non basta a scongiurare il rischio di una futura catastrofe, sia perché con un allarme più lieve la città si allaga lo stesso (il Mose si alza solo se c’è il rischio sopra un certo livello), sia perché l’innalzamento del mare grazie al cambiamento climatico è irreversibile, sia perché le fondamenta delle isole lagunari stanno sprofondando. Un rapporto UNESCO dello scorso giugno rivela infatti che la terra sprofonda di circa 3mm l’anno e intima il nostro Paese a prendere seri provvedimenti.
Ma per quanto ottimisti possiamo essere, sappiamo benissimo che nessun governo farà mai veramente qualcosa di concreto e sul lungo termine per contrastare gli effetti della crisi climatica verso la quale stiamo letteralmente correndo. E sappiamo bene, come l’ultimo G20 ha dimostrato, che nessuna potenza mondiale farà realmente un passo indietro sulle politiche capitaliste che ci hanno portati fino a questo punto. Quindi con Venezia, e con lei centinaia di altre “perle” italiane che diventano decine di migliaia se spostiamo il focus globalmente, in serio rischio, con un immenso e decantato patrimonio che non siamo minimamente in grado di gestire, conservare e valorizzare e con alle spalle una storia dell’arte che affonda alla culla della civiltà che assolutamente non meritiamo minimamente, quanto realmente possiamo biasimare gli attivisti ambientali che lanciano cibo a contro le vetrine dei musei?
Sarah Campisi -ilmegafono.org
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