Lupara bianca è una locuzione utilizzata in Italia per indicare un omicidio mafioso che prevede la distruzione e/o l’occultamento del corpo di una persona assassinata. Di lupara bianca, il 20 marzo 1981, a Rosarno, in Calabria, muore Annunziata Pesce. Aveva trent’anni, era figlia di Salvatore e nipote del boss di ‘ndrangheta Giuseppe Pesce. Annunziata non aveva una sola colpa, ma, addirittura, due: aver tradito il marito e averlo fatto perché innamorata di un carabiniere. Di questa donna, dal giorno della sua scomparsa, non si saprà più nulla poiché nessuno poteva o doveva pronunciare il suo nome, fedele all’antico detto: “Davanti alla gran curti non si parra, pochi paroli e cull’occhiuzzi ‘nterra, l’omu chi parra sempri la sgarra! Culla sua stessa lingua s’assutterra”. Che tradotto significa: “Davanti alla gran corte non si parla, poche parole e con gli occhi rivolti verso terra, l’uomo che parla troppo, sempre sgarra! Con la sua stessa lingua si sotterra”.
Bisognerà attendere il 2010 perché la testimone di giustizia Giuseppina Pesce riveli cosa era accaduto ad Annunziata. La sentenza di morte era stata decisa ed eseguita dal cugino Nino Pesce alla presenza del fratello della donna, Antonio. Secondo il codice etico delle ‘ndrine, il disonore deve essere lavato e purificato in presenza di un familiare delle vittime, in genere il padre o il fratello maggiore. Per tantissimo tempo, Annunziata aveva dovuto nascondersi. Poi è stata uccisa e fatta sparire. Per trent’anni è svanita come se del suo passaggio su questa Terra, nessuno si fosse accorto. A riportarla in vita un’altra donna.
Perché se in Calabria ci sono donne di ‘ndrangheta, quelle che il procuratore Nicola Gratteri definisce “il termoregolatore, le molle che caricano gli uomini … sono quelle che tengono acceso il fuoco della vendetta e che caricano gli uomini per andare ad uccidere”, ce ne sono altre che la ‘ndrangheta la combattono e hanno il coraggio di denunciare, di raccontare la verità, di uscire dagli schemi, di innamorarsi ed essere libere. La storia di Annunziata Pesce viene ricordata in un volume di Danilo Chirico e Alessio Magro, pubblicato nel 2010, dal titolo emblematico: “Dimenticati. Cittadini innocenti uccisi dalla ‘ndrangheta e sepolti dall’indifferenza dello Stato”. È in questo libro che si racconta, seguendo le testimonianze di Giuseppina Pesce e del boss “pentito” Pino Scriva, che Annunziata è stata prima seguita e pedinata per avere la certezza del suo tradimento, poi sequestrata e, infine, giustiziata.
In questo atroce delitto vi sono tre elementi che vanno analizzati e che, secondo il codice delle ‘ndrine, non erano sopportabili: il tradimento del marito, l’amore per un carabiniere (ennesimo tradimento poiché, in quanto rappresentante dello Stato, considerato nemico delle cosche) e la condizione della donna, proprietà prima del padre e poi del marito, priva di libertà e autodeterminazione. Una ribelle, insomma. Annunziata ha tradito l’onore tre volte. Una cosa intollerabile. Un omicidio di mafia sicuramente, ma anche un femminicidio. Annunziata non apparteneva a se stessa ma alla famiglia, agli uomini della famiglia, al sistema patriarcale in cui era inserita, in cui era nata. È una storia di ‘ndrangheta ma anche e soprattutto di violenza sulle donne.
Bisogna raccontare, ricordare e fare memoria, perché la storia di Annunziata e di tante altre donne rimangano, per dirla con Sciascia, “a futura memoria (se la memoria ha un futuro)”; ecco, dobbiamo fare in modo che la memoria abbia un futuro. La drammaturga statunitense Eve Ensler scrive: “Bisogna parlare della violenza sulle donne perché la storia delle donne è la storia della vita stessa. Parlandone non si può evitare di parlare di razzismo e supremazia, povertà e patriarcato, costruzione di imperi, guerra, sessualità, desiderio, immaginazione. Il meccanismo della violenza è ciò che distrugge le donne, le controlla, le sminuisce e le tiene al loro cosiddetto posto. Parlare della violenza, raccontare le storie, perché nel raccontare legittimiamo l’esperienza femminile. Riveliamo ciò che accade nell’oscurità, nel sottoscala, lontano dagli sguardi. Nel raccontare, le donne si riappropriano del loro potere. Della loro voce. Dei loro ricordi. Del loro futuro”.
Sappiamo molto poco di Annunziata, non conosciamo cosa le piacesse, che musica ascoltasse, che cibi preferisse, se amasse leggere. Io la immagino però con dei fumetti di Andrea Pazienza in mano, mentre con aria di sfida sussurra a chi la uccide una frase del famoso fumettista: “Amore è tutto ciò che si può ancora tradire”.
Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org
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