Strada statale 115 Agrigento-Porto Empedocle. Il 4 aprile 1992. Una Fiat Ritmo, sul viadotto Akragas che collega le frazioni di Villaseta e Monserrato alla città dei Templi. Una Fiat Fiorino che sorpassa la Ritmo. Colpi di mitra, kalashnikov, pistole 357 magnum, fucili a pompa. Sangue e morte. Trent’anni fa il maresciallo Giuliano Guazzelli, il quale era già riuscito a sfuggire ad un altro agguato, veniva trucidato barbaramente dalla mafia. Era nato in provincia di Lucca, a Gallicano, nel 1934. A vent’anni era già carabiniere. Si era trasferito a Menfi, in Sicilia, dove si era sposato e aveva messo al mondo tre figli. Assegnato al nucleo investigativo di Palermo, aveva indagato sul clan dei corleonesi. Trasferito a Trapani, aveva ricevuto numerose minacce di morte e gli avevano bruciato l’automobile.
Nel 1977 guidava la stazione dei carabinieri di Palma di Montechiaro, poi la sezione giudiziaria al Tribunale di Agrigento, dove viene soprannominato “mastino” per la sua tenacia, perseveranza e abilità di investigatore. Insomma, non mollava mai l’osso. Negli anni ‘80 inizia a collaborare con il giudice Rosario Livatino, si occupa della Stidda, organizzazione mafiosa parallela a cosa nostra, indaga sulla mafia di Raffadali e sulla partecipazione di un onorevole democristiano al matrimonio del figlio del boss di Siculiana, Gerlando Caruana. Chi lo ha conosciuto ricorda che aveva una memoria portentosa. Bastava una data o il ricordo di un luogo o una parentela per attivare la sua memoria storica della mafia. In quarant’anni di servizio in Sicilia, in luoghi dove la mafia aveva prosperato, controllava e controlla ancora il territorio, in città e paesi dove convive con lo Stato, Guazzelli aveva archiviato dentro di sé la radiografia delle cosche, che teneva sempre aggiornata.
Collaboratore del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, dei giudici Falcone, Borsellino e Livatino, egli stava indagando proprio sul misterioso omicidio di quest’ultimo, avvenuto il 21 settembre 1990, a pochi chilometri di distanza dove sarebbe stato trovato il suo corpo, crivellato dai proiettili. Della collaborazione con il giudice Livatino parla, in un articolo, Mimmo Bruno, all’epoca comandante del Distaccamento Forestale. Il “giudice ragazzino” aveva compreso che gli incendi boschivi del patrimonio forestale pubblico erano tutti dolosi e che, dietro quegli incendi, c’era la mafia. Fu così che chiamò nel suo ufficio, in Tribunale, Mimmo Bruno, chiedendogli il piano regionale sugli incendi boschivi redatto dalla Regione Siciliana alla fine degli anni ‘70, che nessuno in Regione aveva letto e preso in considerazione. Nessuno aveva lavorato al piano di prevenzione, nessuno aveva rispettato i modi e i tempi previsti.
“Accertate quelle omissioni da parte dell’ufficio pubblico regionale, – scrive Mimmo Bruno – Livatino accertò anche che nel caso di un rimboschimento, nell’agro di Licata, nell’area gestita dal Consorzio di Bonifica, si era perpetrata una truffa aggravata ricorrendo ad un incendio doloso. Cosa era emerso? In pratica, la ditta appaltatrice anziché piantare alberi di latifoglie metteva nell’area soltanto rami, non alberi. Poi, qualche giorno o settimana prima del collaudo, bruciava tutto. La cenere – pensava la ditta – avrebbe cancellato la truffa. Quindi andava regolarmente ad incassare le somme elargite dalla Regione Siciliana per quel progetto di rimboschimento” .
Indagando su quella truffa, il giudice Livatino convocò nella sua stanza in Tribunale, anche il maresciallo Giuliano Guazzelli. “Lo conoscevo solo di vista e di fama, – continua Bruno – sapevo che era un eccellente investigatore, la memoria storica di cosa nostra agrigentina. Presentandomelo, Livatino mi disse che se avevo bisogno di collaborazione, ‘Guazzelli era a mia completa disposizione per qualunque ulteriore attività d’indagine’”. Livatino si fidava di Guazzelli e Guazzelli si fidava di Livatino.
Due uomini che avrebbero fatto la stessa tragica fine, sotto lo sguardo dei templi greci, ai piedi di una città il cui paesaggio ha, da sempre, incantato viaggiatori e artisti di ogni epoca e che Johann Hermann von Riedesel, in una lettera ad un amico descrive così: “Immagini, mio caro amico: sotto la mia finestra, c’era un declivio lungo quattro miglia che finiva nel mare e che si estendeva, da entrambi i lati, per sei o sette miglia. Questa collina era coltivata, a tratti, a vigna e, a tratti, a ulivi e mandorli e vi si trovavano i cereali migliori che il sette aprile sono nella piena fioritura. Inoltre, è possibile trovarci gli ortaggi più saporiti e tutti i possibili frutti della terra. I limiti della proprietà sono segnati da siepi di aloe e da piante di fichi d’india; centinaia di usignoli allietano l’aria col loro canto. In questi campi meravigliosi scoprii il tempio ben conservato che è chiamato di Giunone Lacinia, quello intatto della Concordia, i resti di quello dedicato ad Ercole e le rovine del tempio di Giove”.
Aprile è il mese in cui Giuliano Guazzelli, immerso in questo paesaggio, a bordo della sua Fiat Ritmo, viene trovato senza vita, inerme. Tornano in mente le parole di un testo di Chico Buarque de Hollanda che suonano, più o meno così: “…Amò tutta la notte come fosse l’ultima, baciò la donna sua come se fosse l’ultima, ed ogni figlio suo come se fosse l’unico, e attraversò la strada col suo passo timido … e fluttuò nell’aria come fosse un passero, a terra si afflosciò come un pacchetto flaccido” .
Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org
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