L’estrazione mineraria sta uccidendo un altro grande fiume in Parà, Stato del Brasile situato nell’area nord-orientale del Paese. Nonostante le richieste, le denunce, le lettere aperte al Governatore dello Stato, le petizioni, i blog di denuncia, la contaminazione di oltre 700 chilometri del fiume Tapajos e i suoi principali affluenti, continua in modo inesorabile. Che ne sarà, a questo punto, della nascente industria del turismo, che oggi impiega migliaia di persone lungo il fiume tra Santarèm e Itaituba? Come sarà la salute pubblica, minacciata dalla contaminazione delle scuole a causa del metalmercurio? Cosa ne sarà dell’economia? E cosa dire delle celebri bellezze di quella regione che attira residenti e visitatori da tutto il mondo?
“Forse anche adesso – scrive in un post l’etnopsichiatra Paolo Cianconi – qualcuno dovrà negare la realtà che ha davanti ai suoi occhi: l’inquinamento da argilla, mercurio, cianuro, saponi, detersivi, grassi e combustibili. Tutto questo sta arrivando davanti a Santarèm, uccidendo l’incontro delle acque e facendo scomparire il colore verde/azzurro, la cui bellezza è sempre stata una delle caratteristiche della foce del Tapajos, dove il grande fiume sfocia nell’Amazzonia”. Un’indagine svolta dal Ministero Pubblico Federale (MPF) con la collaborazione dell’Università del Minas Gerais conferma ufficialmente la diffusione allarmante di mercurio in fiumi e torrenti e indica il governo e le diverse istituzioni di controllo come responsabili.
Lo riporta il sito Brazil del Pais. La politica tollerante e spesso addirittura di stimolo – con norme compiacenti, scarsa vigilanza, multe inflitte e poi cancellate – nei confronti delle industrie minerarie ha spinto l’esercito dei garimpeiros a varcare i confini delle aree sottoposte a vincolo e a distruggere ettari di verde. I risultati della ricerca dimostrano che, nel biennio 2019-2020, sono state utilizzate circa 100 tonnellate di mercurio per estrarre l’oro, minerale che è stato poi spedito in paesi come il Canada, il Regno Unito e la Svizzera. L’indagine, scrive il quotidiano spagnolo, ha rilevato una quantità di 49 tonnellate di oro “lavato”, cioè di oro estratto illegalmente ma fatto apparire come legale, da agenti commerciali e industrie che operano in Amazzonia, con la collaborazione attiva dei clan criminali. Il metallo esce dalla foresta, viene immesso nel circuito e, grazie a documenti contraffatti, non subisce alcuna verifica. Una frode in piena regola.
Tutto questo con il “benestare” di Jair Bolsonaro, dal 2018 presidente del Brasile; un politico che, in molti interventi, ha difeso l’operato del regime militare e che, non soddisfatto, ha anche proposto la reintroduzione della pena di morte abolita nel 1988. Bolsonaro è colui che ha proposto, ancora, per risolvere il problema della povertà, la sterilizzazione degli indigenti. Il suo governo prevede tagli alle spese, leggi e frasi oscene verso le minoranze, accordi con tutti i Paesi sovranisti. A questo si è aggiunto il decisivo sostegno accordato a Bolsonaro da parte della grande impresa agraria, dei fazendeiros che sono stati conquistati dalla proposta di una vera e propria deregulation ambientale e dalla prospettiva di una nuova “corsa all’oro” per l’agrobusiness nelle foreste vergini dell’Amazzonia e nel cerrado del Mato Grosso. Jair Bolsonaro, “il Trump tropicale”, come è stato definito, sostenuto da uno dei gruppi economici più potenti del Paese, è stato chiaro in campagna elettorale: “Nemmeno un centimetro quadrato in più agli indios”, ha detto.
“Il clima politico ostile ai popoli indigeni – dice Sarah Shenker di Survival – si è rafforzato negli ultimi anni; il Congresso è, infatti, dominato dalla lobby agro-industriale che fa parte della cosiddetta ‘BBB’ (boi, bala e biblia), un gruppo di politici con forti interessi in agricoltura, nella chiesa evangelica e nella lobby delle armi. Se i loro diritti territoriali non saranno rispettati, sarà una tragedia per la loro sopravvivenza e per quella della foresta Amazzonica – con conseguenze drammatiche per il nostro pianeta e per i tentativi di mitigare i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale”. Se a tutto questo aggiungiamo la deforestazione illegale della foresta amazzonica per la produzione di carne, la situazione si trasforma in disastro planetario.
L’organizzazione internazionale Animal Equality ha lanciato un appello al governo brasiliano e all’Unione Europea, per chiedere misure in grado di fermare la distruzione degli habitat naturali in Sudamerica. In particolare in Brasile, nelle regioni del Cerrado e del Pantanal, nel Mato Grosso, dove si sono recati gli investigatori dell’associazione per documentare le attività illegali collegate all’industria della carne. È noto che in Brasile – principale produttore mondiale di carne bovina e soia – il fuoco viene utilizzato frequentemente per trasformare la foresta in nuovi terreni da sfruttare economicamente. Gli allevatori appiccano incendi per ricavare nuovi pascoli da destinare ai bovini da carne, in larga parte esportata verso altri Paesi, Italia inclusa.
Lo stesso fanno gli agricoltori per creare nuovi campi di soia, che a sua volta sarà destinata alla produzione di mangimi per gli allevamenti intensivi di tutto il mondo. Gli allevamenti intensivi sono considerati responsabili di oltre l’80% della deforestazione che si verifica in Brasile, dove la stima degli incendi appiccati da allevatori di bestiame raggiunge il 98%. L’Italia è considerata il primo Paese importatore europeo di carne bovina, utilizzata anche per prodotti tipici come la bresaola. Si stima che il 17% della carne di manzo e della soia brasiliane importate in Europa sia legato alla deforestazione illegale nelle regioni dell’Amazzonia e del Cerrado. Di conseguenza, secondo i calcoli di Etifor, l’Italia con i suoi consumi ha causato in media una deforestazione compresa fra i 5.900 e gli 11.153 ettari all’anno.
Alcune famose ditte di carni e mangimi italiani sono conniventi di questo dannoso eco crimine. Se non salviamo l’Amazzonia e i popoli indigeni sarà una sconfitta per l’umanità intera. Non possiamo pensare che la questione non ci riguardi, che questo avviene troppo lontano da noi. Il sindacalista e ambientalista brasiliano Chico Mendes scrisse: “All’inizio pensai che stavo combattendo per salvare gli alberi della gomma, poi ho pensato che stavo combattendo per salvare la foresta pluviale dell’Amazzonia. Ora capisco che sto lottando per l’umanità”. Per dirla con il nostro De Andrè, “per quanto ci crediamo assolti, siamo per sempre coinvolti”.
Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org
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