“Time is out of joint/O cursed spite/ That ever I was born set it right”. W. Shakespeare “Amleto”, atto 1, scena 5. Nella traduzione teatrale italiana, il verso in realtà è: “La natura è fuori de’ suoi cardini/Oh maledizione!/Perché dovevo io nascere per riporvela!” Ma una traduzione più contemporanea del linguaggio potrebbe essere: “Il tempo è slegato/Che maledetto dispetto/Essere nato per rimetterlo in sesto”. Ed è proprio sul concetto di “tempo slegato” che ci soffermiamo oggi per cercare di analizzare il nuovo allestimento de La Galleria Nazionale (ex GNAM) di Roma, voluto dalla visionaria direttrice Cristina Collu e iniziato nel 2016. Certo, questa riflessione arriva con qualche anno di ritardo, ma forse è proprio il tempo adatto per commentare un atto rivoluzionario come quello attuato da Collu in quella che è la collezione di Arte Moderna e Contemporanea dell’Otto-Novecento più importante del Bel Paese.
Il “nuovo” allestimento de La Galleria Nazionale – aspramente criticato e condito di forte delusione dalla “vecchia guardia” della museologia – consiste proprio nella dissoluzione della cronologia temporale, che da linea retta diventa un reticolo intrecciato che apre nuovi dialoghi tra epoche, artisti e movimenti molto distanti tra loro. Così possiamo trovare nella stessa sala un’opera pittorica monumentale di G. Perrone del 2002 insieme ad “Ercole e Lica” di Canova del ‘700 e un’installazione a pavimento di Pascali degli anni ‘60. In alcune sale le opere sono accostate per tematica (come quella che mi piace chiamare “la sala della guerra”), in altre per colore, alcune per emozioni. Si annulla totalmente il percorso sia fisico che storico, lasciando lo spettatore libero di muoversi nel tempo e nello spazio e creare da sé la propria logica.
L’impatto emotivo è sorprendente. In Italia non siamo abituati ad una museologia così “fuori dagli schemi”. Siamo molto spesso dei conservatori, legati a una visione culturale ottocentesca, classica, informativa sì, ma talvolta dai toni bassi, sussurrati. Tutto sempre al suo posto, in un’ordinata linea orizzontale che da secoli è tracciata e così bisogna continuare a tracciarla. Il cambiamento intimorisce, specialmente quando si tratta di scomodare un certo tipo di arte, l’apprendimento e le metodologie didattiche. Il mondo intorno cambia alla velocità della luce e noi, dotati di tutti i device e delle più avanzate tecnologie, portiamo ancora avanti ideali impolverati. I rimproveri mossi da alcuni studiosi, come il prof. C. Gamba, consistono nell’affermare che questo tipo di “operazioni” possono andar bene per musei come il MAN (Museo d’Arte di Nuoro, Sardegna) o il MART (Museo d’Arte di Trento e Rovereto) entrambi rivoluzionati da Collu e per i quali, a detta loro, ha fatto un magnifico lavoro, ma la collezione della Galleria Nazionale non andava toccata. Viene da pensare che il mondo accademico e intellettuale consideri alcuni musei di serie A e altri “robette” con le quali si può giocare.
Cristina Collu è stata la più giovane direttrice di un museo in Italia nel 1996, all’età di 27 anni. Il padre la iscrisse al concorso a sua insaputa e lo vinse. Aveva appena finito la sua formazione, che l’ha vista spostarsi prima a Madrid (dove in due anni prese un dottorato e due master) e poi a Sidney (per un Internship con il Museum of Contemporary Art in 3 dipartimenti), ed è stata selezionata per dirigere un museo che doveva ancora aprire (è stato inaugurato nel ’99), quindi fin dalla nascita. Dalla Sardegna al Trentino, dove nel 2012 è chiamata a dirigere il MART, nel quale pianifica strategie che lo posizionano in prima linea per innovazione, sostenibilità e cooperazione. Alla fine del 2015, approda alla GNAM di Roma, che rinnova a partire dal nome (oggi si chiama appunto “La Galleria Nazionale”). All’annuncio del cambio allestimento, tutti coloro che hanno tessuto le sue lodi fino a quel momento sono diventati i più aspri critici.
“Vogliamo il cambiamento, ma non quello li”, sembrano dire. Ma basta dare un’occhiata ai Report annuali, disponibili online con la più totale trasparenza, per vedere come in realtà questi cambiamenti abbiano giovato al museo. È vero, l’allestimento così può risultare confusionario, ma è altrettanto stimolante. Chi accusa di tralasciare l’aspetto didattico dovrebbe capire che quest’istituzione ha all’attivo un fittissimo calendario di laboratori, progetti di accessibilità con gli studenti, progetti di sostenibilità e inclusione sociale come “La memoria e il bello”, per le persone affette da Alzheimer, o le Visite Tattili, per le persone non vedenti o, ancora, “Museo per tutti”, dedicato alle persone con disabilità intellettive.
Un museo che mette il territorio al primo posto, affronta tematiche “scomode” attraverso le mostre, promuove progetti di sostenibilità ambientale. “Non ci sono pannelli interattivi che spiegano perché questo è qui e quello è li”, è vero, ma ci sono: un sito web esemplare (per la media nazionale s’intende); una comunicazione social attenta e fresca, come si può vedere su instagram ad esempio; una serie di mostre virtuali su Google Arts&Cultures. Inoltre, come ha già affermato più volte Collu, quelle opere sono messe li così per suscitare emozione, per stimolare un pensiero critico, positivo o negativo che sia. Un museo, nel 2021, non è solo la passeggiata dentro la collezione. Un museo è un’istituzione culturale a 360° che dialoga con i cittadini e con i visitatori, ha offerte diversificate per tutti, è accessibile non solo in termini fisici ma anche sociali e culturali. E tutto questo La Galleria Nazionale, con la direzione di Cristina Collu, a parere di chi scrive, lo porta avanti in maniera esemplare.
Sarah Campisi -ilmegafono.org
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