La striscia di Gaza brucia. Quaranta chilometri di lunghezza e dieci di larghezza dove quasi due milioni di donne, uomini e bambini, provano a sopravvivere ogni giorno, prigionieri di una vita che a loro viene negata da sempre. Una striscia, appunto, così piccola che il mondo finge di non vedere o guarda con fastidio. Eppure, quella striscia esiste: i suoi confini sono il mare e chilometri di filo spinato, sorvegliati giorno e notte dai cani da guardia dell’esercito israeliano da un lato e da quello egiziano dall’altro, a ricordare che quel lembo di terra è soltanto un’area separata dal resto della Cisgiordania che, prima dell’occupazione israeliana del 1967, era sotto il controllo egiziano. Non esiste una prospettiva di vita per i giovani di Gaza, per loro l’unica prospettiva è resistere ai bombardamenti, ai blindati e alla violenza quotidiana. In quella striscia di mondo l’acqua e l’energia elettrica sono un miraggio come lo sono la libertà e il diritto alla vita.
In quest’ultimo anno si è aggiunto un nemico in più: il Covid. Il mondo ha applaudito la capacità dello Stato di Israele di aver vaccinato la maggioranza della sua popolazione, ma nei territori occupati il silenzio dei vaccini è stato assordante. Il 15 maggio, una parola più di altre rimbombava nella testa: “Nakba”. Nella lingua araba significa “catastrofe” e ricorda le decine di villaggi distrutti e i 700mila palestinesi costretti a lasciare le proprie case per diventare profughi infiniti, e quella chiave di casa tramandata di generazione in generazione è il simbolo di quel sogno che si chiama “ritorno”.
Sulla Palestina, sulla striscia di Gaza e sulle violazioni da parte dello Stato di Israele di ogni diritto umano molti ritengono di poter raccontare la propria verità. Ma ogni verità, o presunta tale, si infrange inevitabilmente contro un muro di vergogna che si chiama “pulizia etnica”. La corsa a giustificare il diritto dello Stato di Israele a difendersi diventa affollata, ma questa corsa fuorviante e assolutoria dimentica, o finge di dimenticare, l’intero processo di violenza e di pulizia etnica portato avanti dallo stesso Stato di Israele nel corso dei decenni. È una posizione che si specchia nella totale mancanza di coraggio, umano e storico. C’è una rimozione storica delle coscienze che, dal secondo dopoguerra, convivono con il senso di colpa dell’olocausto di cui è stato vittima il popolo ebraico, e oggi gli occhi si chiudono nei confronti del popolo palestinese.
Accusare oggi la politica dello Stato di Israele comporta automaticamente essere tacciati di antisemitismo e questo è inaccettabile: con il tempo l’antisemitismo è diventato uno strumento nelle mani dello Stato di Israele, con cui quello Stato condiziona e misura le reazioni della comunità internazionale. Nessun accenno, nessuna critica e nessuna censura sulla storia del movimento Sionista che affonda le sue origini negli ultimi anni dell’800. Eppure, è nelle fondamenta del Sionismo che si parla apertamente del diritto all’autodeterminazione di una “razza eletta”. La storia del Sionismo è lunga, ha radici antiche e profonde e ha visto l’appoggio delle grandi potenze europee, Inghilterra soprattutto. Il Sionismo è ancora oggi la bandiera capace di unire i politici israeliani, e quasi nessuno ricorda loro che il Sionismo è il primo responsabile della Nakba che ha reso profughi i palestinesi sulla terra.
Ma gli storici, o sedicenti tali, spesso omettono di approfondire tutto questo di fronte a quello che da più di 70 anni sta accadendo nei territori occupati. Per chi non è uno storico, per chi semplicemente vuole “Restare Umano”, resta solo la propria coscienza. Le piazze, in Europa e in Italia, raccontano la straordinaria mobilitazione di solidarietà con la Palestina e non solo, ma quelle piazze sembrano invisibili a tutti. Qualcosa che si chiama solidarietà alza il volume di quella voce, chiede impegni che nessun governo si assumerà mai e gli ultimi della fila lo hanno capito da tempo e sanno che il loro destino e la loro dignità contano zero, è sempre stato così e così è ancora oggi. La classe politica italiana, perché è pur sempre in questo Paese che noi viviamo, ha dato nei giorni scorsi una dimostrazione in più della propria viltà e ipocrisia.
Tutti insieme, appassionatamente, a dichiarare la propria solidarietà al popolo di Israele e al suo diritto a difendersi. Tutti insieme alla manifestazione organizzata dalla comunità ebraica di Roma nel ghetto della Capitale, nella fotografia di gruppo a cantare la Hatikva, l’inno nazionale israeliano. Che strano, è successo in quello stesso ghetto di Roma dove il 16 ottobre 1943 furono arrestati e deportati ad Auschwitz oltre mille ebrei romani. In seguito, il comando tedesco stabiliva che la deportazione doveva riguardare tutti gli ebrei senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione. Eppure, pochi giorni fa in quel ghetto la politica italiana si ritrova compatta, comprese le forze di quel “centrosinistra”, accanto ad esponenti della destra fascista e razzista. E allora ci si chiede anche come la comunità ebraica non abbia nulla da dire a questo proposito.
Si applaude al diritto di Israele a difendersi, facendo ancora confusione fra lo Stato di Israele e il popolo ebraico, nemmeno una parola per la Palestina e per quella striscia di 40 chilometri per 10 che rappresenta l’ultima periferia di quel mondo sempre più globalizzato dove gli ultimi sono sempre più ultimi. Le periferie del mondo soffocano, bruciano, e l’incendio che in troppi fingono di non vedere ha già acceso i fuochi. All’orizzonte non si vedono pompieri che si spendono per spegnere l’incendio: per calcolo o per scelta si vedono solo repressione e violenza. Come un disegno costruito nel tempo che prende forma, una tela di ragno tessuta con pazienza e viltà umana e politica, dove i padroni della terra si confondono e si fondono in un’unica identità: quella dominante.
Si potrebbero scrivere mille pagine sul perché la Palestina brucia. Si potrebbe e si dovrebbero rileggere almeno 50 anni di storia, e questo aiuterebbe a capire perché oggi a decidere tutto sono uomini come Benjamin Netanyahu da una parte, che si ritiene l’unico e vero erede del Sionismo, e il movimento di Hamas dall’altra. Ma leggere la storia costringerebbe il mondo ad ammettere errori, sbagli e follie. Intanto la striscia di Gaza brucia e il mondo non sente l’odore acre del fumo e le ferite delle bombe. È l’ultima periferia e mentre il mondo guarda da un’altra parte le case di Gaza si sbriciolano, bruciano insieme a quel futuro che i suoi giovani non conosceranno mai. C’è una chiave che passa di generazione in generazione e che racconta tante cose: è il ricordo di una pulizia etnica, di un pugno di case e di umanità diventato il margine ultimo della vita e un’immensa prigione a cielo aperto. Lì, ogni giorno, la scommessa è riuscire a vedere il tramonto della sera e l’alba del giorno dopo.
Vittorio Arrigoni aveva saputo raccontare Gaza come nessun altro, lui che aveva scelto e deciso da quale parte della strada camminare. Aveva scelto di essere al fianco di quel popolo, con loro aveva vissuto e condiviso ogni passo, ogni sogno. In quella striscia ha lasciato il segno del suo passaggio e del suo cuore grande. Al suo ritorno, dentro una bara di legno, fra i tanti che si sono stretti intorno a lui e alla sua storia, alla sua famiglia, c’era un assente illustre: lo Stato italiano. È lo stesso Stato che, solo pochi giorni fa, era in quella piazza del ghetto di Roma. Sulla Palestina e su Gaza non una parola…oggi come allora, perché le periferie del mondo non interessano a nessuno, nemmeno quando bruciano.
Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org
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