Dall’altra parte del mondo, al largo dell’Oceano Indiano, l’associazione Greenpeace sta denunciando da settimane le pratiche di pesca distruttiva che ne stanno decimando la popolazione marina. Il problema è assai complesso e merita attenzione a livello globale, perché preservare la vita dei nostri oceani vuol dire garantire la sopravvivenza dell’essere umano e del pianeta su cui viviamo. Il problema dell’Oceano Indiano riguarda l’uso delle cosiddette reti “spadare” per la pesca. Queste sono conosciute anche come muri della morte e si fa presto a capire perché. Si tratta di reti d’altura, sospese cioè grazie a dei galleggianti, alte circa 30 metri e lunghe 5 miglia, con maglie larghe circa 30 cm. Si tratta della lunghezza di circa 13 campi di calcio e l’altezza di un palazzo di 10 piani. In pratica, qualunque specie marina non ha scampo e l’uso di queste reti permette catture indiscriminate anche di specie a rischio.
È stata subito chiara la necessità di bandirle già dal 1989, oltre 30 anni fa, quando le Nazioni Unite vagliarono la risoluzione 44/225 proprio contro l’uso di queste reti, imponendo dei limiti. A questo provvedimento seguì quello comunitario, con il regolamento 345/92 emanato dalla CE nel 1991. Ciò nonostante, il problema non è stato risolto e anzi, nel corso degli anni, è diventato sempre più insostenibile a causa dell’aumento della domanda proprio da parte dei mercati occidentali come quello europeo. La lunghezza delle reti si è moltiplicata in maniera incontrollabile negli anni. Dalla denuncia di Greenpeace dei giorni scorsi, infatti, emerge che ben 7 barche siano state filmate mentre calavano reti lunghe circa 21 miglia di lunghezza. Una pesca spropositata dettata dall’avidità delle flotte industriali europee e dall’assoluta noncuranza delle istituzioni a livello internazionale, anche italiano, che stanno lasciando l’oceano alla mercé della pesca distruttiva.
Questa situazione sta devastando l’ecosistema marino dell’Oceano Indiano. Basti pensare che, negli ultimi 50 anni, le popolazioni di squalo sono calate di quasi l’85%. Il tonno pinne gialle, molto richiesto dal mercato europeo, potrebbe diventare una specie a rischio entro il 2024, con l’Oceano Indiano che vede il 21% delle catture mondiali. Sono solo alcuni dei numeri emersi dal rapporto di Greenpeace “High Stakes: The enviromental and social impacts of destructive fishing in the high seas of the Indian Ocean”. Come dice il rapporto gli impatti sono anche sociali considerando che una pesca ben gestita garantirebbe la sicurezza alimentare a circa il 30% della popolazione mondiale che vive intorno all’Oceano Indiano.
Insomma, la situazione è al collasso ma non si capisce perché non ci sia una risposta dalle istituzioni a livello globale. La tutela degli oceani è già un argomento di discussione per numerosi problemi, tra cui occorre menzionare quello della presenza delle microplastiche che mettono a rischio la sopravvivenza di tantissime specie che finiscono per nutrirsene. Secondo uno studio dello scorso anno le microplastiche sarebbero presenti per circa 15 milioni di tonnellate negli oceani di tutto il mondo. Urgono contromisure, non abbiamo un pianeta b.
Vincenzo Verde -ilmegafono.org
La foto in copertina è tratta dal sito di Greenpeace.
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