“La storia è la memoria di un popolo, e senza una memoria l’uomo è ridotto al rango di animale inferiore” (Malcolm X).
27 gennaio 1945. I soldati dell’Armata Rossa aprono i cancelli di Auschwitz e il mondo non può più fare finta di non sapere e di non conoscere, di non aver capito dopo aver permesso che avvenisse, colpevolmente complice. Forse è questo il destino dell’Europa, o di gran parte dell’Europa: fingere di non accorgersi di quello che avviene intorno al suo giardino o appena fuori dalla porta di casa. È successo nel Novecento e succede ancora oggi. Dalla birreria di Monaco, la Hofbräuhaus, dove nel 1921 Hitler tenne il suo primo discorso per annunciare le sue idee alla Germania e all’Europa sono passati cento anni. Dopo quella sera, e da quella birreria, il mondo è sceso all’inferno un gradino dopo l’altro, ma in troppi hanno fatto finta di non capire. Ci sono voluti 50 milioni di morti, milione più milione meno, prima che il mondo si rendesse conto che l’ultimo gradino dell’inferno era arrivato.
La storia dell’Olocausto non ha insegnato abbastanza, è passata sul Novecento ma la notte è ancora lì, fredda e decisa a non concedersi all’alba. Dopo 75 anni, quasi 76, cosa è rimasto di quella discesa agli inferi? È rimasta una nuvola nera che ancora copre tanta parte del mondo, e il fumo di quei camini non è ancora spento del tutto. È rimasta la memoria, negata da molti e calpestata dalla storia di ieri e di oggi. Oggi come allora c’è sempre un popolo in fuga, in ogni angolo della Terra: in fuga dalla violenza cieca e stupida degli uomini, in fuga da guerre e dittature, da miserie e carestie. C’è sempre un popolo a cui non viene riconosciuto il diritto di esistere. Quante facce ha questo popolo, che porta sulle spalle il peso di una fuga perenne e costante dalla persecuzione?
Quel popolo in fuga oggi cammina con i piedi scalzi nel gelo e nella neve della Bosnia e condivide la disperazione di chi sale su un barcone per attraversare il Mediterraneo, dopo essere passato dai lager della Libia. Quel popolo ha il volto sfinito delle donne e degli uomini di Palestina, ha gli occhi dei bambini di Gaza. Quel popolo ha la fatica dipinta nel cuore di chi cerca una terra da sempre, come il popolo curdo. Non ha confini la geografia dei popoli oppressi e perseguitati, rifiutati da quello stesso mondo che istituisce giornate per ogni stagione: il Giorno della Memoria, il giorno dei migranti, il giorno dei bambini, la Festa della Donna… e via di questo passo. A chi e a cosa serve? Serve a lavare una coscienza che pesa sulla dignità del mondo? Serve a consolare, a espiare un senso di colpa?
Il giorno della Memoria, istituito con la risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 1º novembre 2005, diventa come tanti altri una ricorrenza internazionale che si svuota di ogni significato, un atto dovuto e ricco di ipocrisia. La memoria non può cominciare e finire con i lager nazisti se non riesce a guardare negli occhi ogni violazione dei diritti umani che da Auschwitz in poi hanno continuato a violentare ogni dignità dell’Uomo. La memoria è vita, è storia di tutti i giorni e non può accendersi a giorni alterni. La memoria ha un senso quando ogni pagina della violenza dell’uomo sull’uomo viene raccolta in un unico libro. Poi ogni pagina di quel libro va studiata, vissuta, raccontata e tramandata perché non possa più ripetersi.
Non comprendere questa verità è una ferita che si aggiunge alle ferite della storia, ed è un’offesa in più ai milioni di morti nell’Olocausto nazista. La memoria non può dimenticare come si è formato, un giorno alla volta, quell’Olocausto: quel potere che pianificò lo sterminio nacque dalle elezioni del 1933 in Germania, dopo che vennero proibiti tutti i partiti di opposizione e a quelle elezioni partecipò una sola lista, quella nazista. L’Europa intera accettò passivamente tutto questo. Il programma di Hitler indicava chiaramente i nemici da sopprimere: tutti coloro che non erano di razza ariana, gli ebrei, i comunisti e gli anarchici, tutti gli oppositori politici, gli omosessuali e i rom, i disabili…
Gli Stati Uniti, i finanzieri di Wall Street e i grandi banchieri, sostennero l’ascesa politica di Hitler fin dal primo momento e, dopo la fine della guerra, molti criminali nazisti trovarono rifugio e protezione nella Spagna di Francisco Franco e in Sud America, accolti dai regimi di destra. In Italia, esso ha le sue origini nelle leggi razziali del 1938, e quelle leggi affondano le radici nella marcia su Roma del 1922. La tragedia ha sempre un prologo, un primo atto. Di quegli anni resta il silenzio, altrettanto colpevole, delle gerarchie del Vaticano. Anche per questo la memoria non può fermarsi al ricordo dell’Olocausto, il ricordo da solo non serve se non si accompagna con la ricostruzione degli avvenimenti.
La storia deve avere il compito di mettere in fila gli eventi, cercando connessioni fra di loro, e provare a dare risposte sul perché i fatti si siano compiuti. Oggi l’Europa e il mondo stanno compiendo lo stesso errore: l’indifferenza. È indifferenza colpevole non prendere una posizione chiara e forte sui crimini commessi dallo Stato di Israele contro i Palestinesi, è colpevole non cogliere la differenza fra ebraismo e sionismo. È indifferenza colpevole stringere accordi con la Libia, con l’Egitto del generale Abdel Fattah al-Sisi, con la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan e con ogni altro Paese dove i diritti umani valgono meno di zero. Vale lo stesso per il silenzio con cui l’Europa ha accettato per quattro anni l’arroganza di Donald Trump, eletto con l’appoggio dei segregazionisti e dei razzisti dell’America bianca. È colpevole il silenzio dell’Europa che accetta il ritorno dei movimenti nazionalisti e neo-fascisti all’interno dei propri confini.
Dov’è la memoria? Dove si nasconde invece di alzare la voce e reagire? Ai confini dell’Italia e nel mare Mediterraneo i migranti muoiono nel silenzio, senza più testimoni. Quell’ Europa che oggi si dice indignata di fronte al dramma dei migranti in Bosnia è la stessa Europa che non ha mosso un dito di fronte alla guerra nella ex-Jugoslavia e che ha girato la testa dall’altra parte di fronte all’assedio di Sarajevo e al macello di Srebrenica. È la stessa Europa che ha finto di non vedere il cimitero in fondo al Mediterraneo e il massacro del popolo curdo. È la stessa Europa che tace di fronte al quotidiano disastro umano della striscia di Gaza.
No, non è questo il Giorno della Memoria di cui il mondo ha bisogno. La memoria è ricordare e capire il passato con lo sguardo rivolto al presente, per riuscire a costruire un futuro diverso da quel passato. Diversamente diventa una celebrazione fine a sé stessa, quasi inutile e ipocrita.
Maurizio Anelli (Sonda.life) – ilmegafono.org
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