“I mille giorni del governo popolare furono duri, intensi, sofferti e felici. Dormivamo poco. Vivevamo ovunque e in nessun posto. Avevamo problemi seri e cercavamo soluzioni. Quei mille giorni possono essere accompagnati da mille aggettivi, ma se esiste una grande verità è che, per quanti come me hanno avuto l’onore di essere militanti del processo rivoluzionario cileno, furono giorni felici, e quella felicità è e sarà sempre nostra, resta e resterà immutabile. Portavamo pantaloni a zampa di elefante, e le nostre ragazze minigonne che eccitavano Dio e il diavolo. E avevamo il nostro modo di fare, perché bastava una sola parola per sapere cosa eravamo e cosa sognavamo: ciao Compagna, ciao Compagno. E con questo era detto tutto”. (Luis Sepúlveda, Storie Ribelli).
L’11 settembre 1973 il sole del mattino sta ancora dormendo quando i caccia dell’Aeronautica militare cominciano a bombardare il palazzo presidenziale de “La Moneda”, a Santiago Del Cile. Poi i carri armati del generale Augusto Pinochet finiscono il compito. Così, sotto le bombe telecomandate dalla CIA e da Henry Kissinger, muore la straordinaria esperienza democratica di “Unidad Popular”, che aveva portato le sinistre al governo in Cile. Così, quella mattina, muore il sogno di Salvador Allende di un Cile libero e democratico. È la notte cilena, che ha il ghigno assassino del generale Pinochet ma la regia avvolta nella bandiera a stelle e strisce americana. È stata una notte lunga, è stata una notte fascista e quindi facile da raccontare: è una storia di violenza e violazione dei diritti umani, controllo militare su ogni sentimento e su ogni gesto della vita, repressione, tortura e “desaparecidos”, cancellazione della libertà.
È una storia di morte. Sette anni dopo il colpo di stato, Augusto Pinochet mette una maschera alla dittatura e al regime: il 21 ottobre 1980 nasceva ufficialmente la nuova Costituzione cilena, entrata in vigore nella primavera del 1981. E in una domenica di ottobre, quarant’anni dopo, il Cile decide che quella Costituzione deve essere cancellata, sepolta. “Quiere usted una Nueva Constitución?” (“Vuoi una nuova Costituzione?”), era la domanda a cui i cittadini cileni dovevano rispondere, e la risposta plebiscitaria è stata ”apruebo” (“approvo”). Una sola parola, “apruebo”, che entra nella storia del Cile. Ora verrà nominata una costituente che avrà il compito di scrivere una nuova Carta della Costituzione.
È l’ultimo simbolo, l’ultima eredità di una notte durata troppo a lungo, che ha segnato e ferito intere generazioni. È un’alba nuova, il giorno nuovo che il Cile vuole e deve sognare: diverso, migliore, libero. Non sarà un processo facile per il popolo cileno, ma ogni rinascita cammina insieme alle difficoltà, e questa è una rinascita: forte, voluta e inseguita con coraggio e sacrificio fra mille difficoltà. La ferita sulla pelle del Cile sanguina da quell’11 settembre 1973, il tempo non l’ha mai rimarginata e non potrebbe essere altrimenti. Troppo violenta è stata quella scossa, e quella terra trema ancora. Il Cile non ha mai abbassato la testa, ha lottato e ha costruito un giorno alla volta questo riscatto: è passato attraverso la sua storia, ha cercato giustizia e verità per i suoi morti senza mai averla.
Ha subito ogni affronto dal tiranno e dai suoi complici in Cile e nel mondo. “Nel 1998, quando (Pinochet ndr) era stato arrestato a Londra per ordine del giudice Baltasar Garzòn, avemmo l’occasione di processarlo per i suoi crimini, ma ricevette l’incomprensibile aiuto dei governi di Aznar in Spagna, di Blair nel Regno Unito e di Eduardo Frei in Cile, che fecero di tutto per evitare la sua estradizione” ((Luis Sepúlveda, Storie Ribelli). Poi il tiranno è morto, godendo della sua impunità fino all’ultimo dei suoi giorni. Ma è morto.
Nell’ultimo anno il popolo cileno è sceso nelle piazze e nelle strade ogni giorno: ha sfidato il governo conservatore di Sebastián Piñera con una forza e un coraggio che decenni di dittatura non sono riusciti a piegare, ha affrontato la repressione dura e violenta dei militari, non ha mai fatto un solo passo indietro davanti agli idranti e ai proiettili, alla violenza. Ha pagato un prezzo altissimo per tutto questo e le donne cilene hanno pagato il prezzo più alto in questo anno di rivolta: violentate dai militari che le portavano via dalle piazze caricandole sulle camionette, e poi gettate sulla strada dopo lo stupro. Dentro quelle piazze e quelle strade un popolo intero si è ritrovato vicino, quella protesta spontanea è diventata ogni giorno un fiume che si ingrossava sempre più, fino a rompere ogni argine.
Tantissimi i ragazzi che non erano ancora nati in quel 1973, tanti quelli che quei giorni li hanno invece vissuti sulla loro pelle come una ferita ancora aperta. Accanto a loro la solidarietà e l’aiuto dei tanti cileni che vivono fuori dal Cile, in Europa, in Italia. Così Plaza de la Dignidad è diventata un simbolo La protesta cilena è rimasta viva e vitale anche durante la pandemia, ha lottato contro il Covid e lo stato di emergenza. Un giorno alla volta quella protesta popolare è diventata la voce di chi non era più disposto a sopportare oltre, un autentico grido di dignità.
Sarà una strada lunga, difficile. Qualcuno pensa che tutto possa essere o possa diventare un modo per mantenere uno “status quo”, un piano del governo e dei partiti per cambiare tutto e non cambiare nulla e per assicurarsi una nuova legittimità costituzionale. Può accadere, certo, è un rischio. C’è un passato recente, e un presente ancora potente, dove non esiste traccia di riforme significative capaci di andare al cuore della struttura, ma il Cile non avrà paura di camminare su quella strada perché i cileni non saranno soli. Accanto a loro ci saranno mille nomi, mille testimoni di un sogno interrotto: la chitarra di Victor Jara suonerà per loro, le mani dei desaparecidos applaudiranno il loro cammino. Ci saranno i nomi, i volti e la storia di chi è entrato nello stadio di Santiago e non è mai più tornato a casa. Ci saranno anche quei ragazzi che portavano i pantaloni a zampa di elefante, insieme a quelle ragazze con minigonne che eccitavano Dio e il diavolo… e si saluteranno come si salutavano in quei giorni: ciao Compagna, ciao Compagno.
In ogni angolo di quella strada ci sarà una bandiera mossa dal vento: è la bandiera Mapuche, la sola bandiera che ha accompagnato un anno di proteste e di ribellione, la bandiera di quel popolo indigeno che da sempre chiede il riconoscimento della propria cultura e il diritto di amministrare le proprie terre. I Mapuche sono il popolo indigeno più numeroso dell’America Latina: due milioni di anime, mille più mille meno, e la maggior parte di loro vive nel centro sud del Cile. Luis Sepúlveda, lassù da qualche parte, scriverà altre pagine da aggiungere alle sue “Storie Ribelli”. E poi ci sarebbe lui, orgoglioso di quel popolo che amava al punto di morire nel Palazzo, con un fucile in mano, piuttosto che arrendersi ad un generale assassino. Perché “è possibile che ci annientino, ma il domani apparterrà al popolo, apparterrà ai lavoratori.” Ciao Presidente Salvador Allende.
Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org
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