Il lavoro non fa più notizia. Tranne quando si tratta di commentare dati sui quali si accapigliano governi, opposizioni e sindacati oppure quando si tratta di imbastire un po’ di retorica attorno al suicidio di qualcuno che il lavoro lo ha perso o non è riuscito, per molto tempo, a trovarlo. D’altra parte, ormai, nemmeno di infortuni e incidenti sul lavoro si parla molto, sono divenuti quasi una consuetudine accettata. Figurarsi allora se possono far notizia i casi di contrapposizione tra aziende e lavoratori/sindacati. Come quello di Telecom Italia (TIM) e di una vicenda che ha creato agitazione e che promette una primavera molto calda sul piano della lotta sindacale.

Dopo lo scontro sulla proposta di una nuova ipotesi di accordo di secondo livello, presentata dall’azienda ai sindacati lo scorso ottobre 2016, con una serie di misure che penalizzano i dipendenti (su scatti di anzianità, giorni di ferie, ore di permesso, mansioni, ecc.), circa un mese e mezzo fa è giunta anche la comunicazione, da parte del gruppo, dell’attuazione di un piano di riorganizzazione che prevede il trasferimento, presso la sede di Roma, di 265 dipendenti delle sedi di Milano e Torino. Una scelta contro la quale lavoratori e sindacati hanno reagito con forza, per rivendicare i propri diritti, in un settore già attraversato da vari problemi (il contratto di settore, ad esempio, è scaduto da ormai due anni).

Secondo le organizzazioni sindacali, la decisione assunta è l’ennesimo tentativo di far pagare ai lavoratori i problemi annosi di un’azienda che continua a vivere una situazione non facile, nonostante alcuni buoni recenti risultati (l’abbattimento del debito, qualche indicatore favorevole su nuovi servizi, il trend positivo sui ricavi del quarto trimestre 2016, che inverte un trend negativo che durava da 18 trimestri, e così via). Gli attuali vertici, nominati con l’entrata in scena del gruppo Vivendi, oggi azionista di maggioranza, in una nota allegata all’incontro di conciliazione con Uilcom tenutosi il 7 febbraio scorso presso il ministero del Lavoro, parlano di un’azienda impegnata a produrre tutte le iniziative per invertire l’andamento negativo degli ultimi cinque anni, allo scopo di favorire “un incremento della produttività del lavoro e un recupero complessivo di efficienza dell’organizzazione”.

Secondo quanto ha dichiarato l’azienda in quella sede, l’attuale situazione registra: un calo dei ricavi; redditività e produttività in declino; profitti insufficienti; costo del lavoro stabile nonostante il ricorso a misure conservative (come il contratto di solidarietà); contrattazione di II livello antistorica; struttura organizzativa complessa e inefficiente; catena di comando lunga e processo decisionale articolato. Tutto ciò, combinato alle condizioni attuali del mercato, rischia di compromettere il flusso di reddito e pertanto rende necessaria una riorganizzazione aziendale in ottica di maggiore produttività ed efficienza.

In poche parole, secondo TIM, per salvaguardare i livelli occupazionali vanno riconsiderati (e ridotti) i diritti dei lavoratori, soprattutto va rivista la contrattazione di II livello e vanno resi efficienti gli spazi. Il presidente Giuseppe Recchi, di fronte alle proteste per il piano di riorganizzazione con spostamento delle 265 unità a Roma, ha infatti dichiarato all’Ansa che si tratta di “ottimizzazioni del parco di real estate dell’azienda”. “Abbiamo sette milioni di metri quadri – dice Recchi – in giro per il Paese. Quindi si tratta di un’operazione di efficientamento degli spazi, non c’è nessun trasferimento strategico”.

Trasferimento strategico è esattamente quello che invece sospettano i sindacati, che parlano del tentativo di attuare licenziamenti mascherati da trasferimenti, facendo leva sul fatto che molti lavoratori con famiglia (in buona parte di età superiore ai 45 anni), pur di non spostarsi, saranno costretti a licenziarsi o quantomeno ad accettare demansionamenti e, dunque, una riduzione del salario. TIM, dal canto suo, assicura che non ci saranno esuberi, ma, come denuncia in una nota l’Ugl, nulla risponde in tema “di mansioni e inquadramento”, né sulla possibilità di ottimizzare e rendere efficiente l’organizzazione attraverso l’impiego di tutti quegli strumenti tecnologici che il gruppo conosce e vende sul mercato.

Strumenti che in questo settore ci sono e potrebbero “consentire ai dipendenti di lavorare da remoto, anche dalla propria abitazione”. Insomma, secondo le organizzazioni sindacali non ci sono ragioni che giustifichino lo spostamento di questi lavoratori in altra città, soprattutto perché ciò non avrebbe alcun impatto positivo in termini di efficientamento degli spazi. Lo ribadisce anche la Slc-Cgil che, in un suo comunicato relativo allo staff del Piemonte, sostiene “l’inutilità di prospettare trasferimenti a colleghi che da decenni lavorano in piena autonomia, con mezzi di comunicazione da remoto di vario tipo, incluso lo smart working che, guarda caso, dal 1° marzo viene ‘sospeso’!”.

Intanto, anche alcune istituzioni provano a mediare, incontrando le delegazioni sindacali e i dirigenti della TIM per far sì che l’azienda chiarisca la situazione. Lo ha fatto Regione Lombardia, con una iniziativa bipartisan e un’audizione in Commissione Attività Produttive, al termine della quale è stata promessa una sollecitazione alla Giunta regionale, affinché chieda al ministero dello Sviluppo Economico la convocazione di un tavolo istituzionale che affronti e risolva la questione. Nell’attesa, però, le lettere sono già arrivate ai lavoratori interessati dal trasferimento, che rischiano entro poche settimane o mesi di essere mandati a Roma.

Cresce così la rabbia tra i dipendenti che rimangono in agitazione e che accusano TIM di scaricare su di loro le colpe di una realtà che, per anni, è stata segnata dalla abitudine di distribuire dividendi elevati tra i maggiori azionisti e premi elevatissimi per i vari manager che si sono susseguiti ai vertici e che, adesso, per recuperare produttività, interviene energicamente sulla forza lavoro, spingendo sui trasferimenti e sulla revisione della contrattazione di secondo livello, ma anche sulla riduzione del costo del lavoro di circa 200 milioni di euro (a quanto pare già inserita a piano per il 2019). Quest’ultima cosa, peraltro, sempre secondo i sindacati, suonerebbe come una prossima minaccia di tagli al personale.

Il futuro sembra dunque poco roseo per questi dipendenti della TIM. Dipendenti che difficilmente accetteranno di subire le scelte di un’azienda che vanta anche una partecipazione pubblica, dunque con risorse dei contribuenti, e che è main sponsor di numerose manifestazioni sportive e culturali (campionato di serie A e coppa Italia di calcio, ma anche l’ultimo festival di Sanremo, per citare le più note) e che, con l’attuale organizzazione, ha comunque ottenuto dei risultati positivi nell’ultimo trimestre 2016. Staremo a vedere, ma certamente la battaglia si annuncia molto calda.

Massimiliano Perna – ilmegafono.org