Quando, nell’estate delle stragi del 1992, la mafia decise di chiudere i conti con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, furono molti i coccodrilli che piansero le loro lacrime, false e gonfie di ipocrisia. Dimenticarono in un sol colpo gli insulti e le offese che da mesi, in alcuni casi da anni, caricavano sulle spalle di chi già sopportava un carico immenso. Erano i tempi in cui, dalle colonne di potenti giornali e nei salotti di influenti televisioni, andava di moda l’accusa di essere “i professionisti dell’antimafia”. Ad inaugurare questo filone fu un articolo pubblicato da “Il Corriere della Sera” il 10 gennaio 1987, a firma di Leonardo Sciascia, con un titolo forte: “I professionisti dell’antimafia”. La forzatura, nel titolo del “Corriere”, era ed è evidente.
Leonardo Sciascia non ha mai usato queste parole; ma quella che poteva essere una critica, condivisibile o meno, sul rischio che l’antimafia poteva rischiare di diventare uno strumento difficile da governare, si trasformò invece in un attacco diretto in particolar modo a Paolo Borsellino, accusato di aver fatto carriera per meriti antimafia: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Un atto d’accusa che diventò una ferita difficile da rimarginare, perché furono davvero in tanti a cavalcare in modo strumentale quella frase: giornalisti, politici e uomini delle istituzioni, e non pochi intellettuali. Leonardo Sciascia morì il 20 novembre 1989 e non ebbe modo di conoscere la stagione delle stragi ma, nel frattempo, quell’articolo diventò uno spartiacque. Era inevitabile considerando due cose: la firma di chi lo scrisse e la polemica sbagliata, nel tono e nella scelta della persona indicata, Paolo Borsellino.
Dopo il fallito attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone, nel giugno del 1989, trovava grande spazio anche il teorema che l’attentato fosse stato organizzato da Falcone stesso per fare carriera, perché “La mafia non sbaglia, quando vuole uccidere uccide”. Di Giovanni Falcone, Ilda Boccassini disse che “non c’è stato uomo in Italia che abbia accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia sia stata tradita con più determinazione e malignità. Bocciato come consigliere istruttore, come procuratore di Palermo, come candidato al Csm, e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso”.
Nel suo ultimo intervento pubblico, alla Biblioteca comunale di Palermo, il 25 giugno 1992, Paolo Borsellino ricordava lucidamente Giovanni Falcone e i “Giuda” che lo avevano tradito, e parlò per l’ultima volta della violenta campagna di delegittimazione dei magistrati antimafia di Palermo, ricordando come “tutto cominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”. Oggi, anno di grazia 2020, il bersaglio è ancora una volta un magistrato antimafia, che porta lo stesso carico immenso sulle spalle: Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro.
Nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, a Roma, si è aperto il più grande processo alla ‘ndrangheta. È un processo importante, dove sotto accusa non c’è solo la ’ndrangheta, ma un intero castello di legami fra le cosche, lo Stato e la massoneria. Sono 224 le parti offese, fra loro 15 comuni della Calabria e l’intera provincia di Vibo Valentia. Al vertice delle accuse c’è Luigi Mancuso, “il Supremo”, ritenuto da sempre in ottimi rapporti con i vertici della ‘ndrangheta della piana di Gioia Tauro e non solo. In questa tela di ragno che condiziona la vita di un’intera regione, il dito punta ai legami con la politica e la massoneria. Facile, quasi scontato, l’accostamento con il maxiprocesso di Palermo di tanti anni fa. Non solo per i risvolti politici e giudiziari, quanto per le aspettative che un simile processo genera nella gente onesta di questo Paese. Eppure, oggi come allora, c’è chi gioca la carta della delegittimazione e del discredito. Ieri Falcone e Borsellino, oggi Gratteri.
Dalle colonne del quotidiano “Il Riformista”, Tiziana Maiolo attacca l’uomo e il magistrato che è riuscito a mettere in piedi questo processo e lo consegna pericolosamente in bocca alla ‘ndrangheta accusandolo di muoversi al solo scopo di riuscire a diventare più famoso di Giovanni Falcone (leggi qui). È un attacco volgare che merita attenzione, perché è così che si comincia a scrivere l’inizio della fine di un uomo e di un magistrato onesto: delegittimandolo, lasciandolo solo, creando intorno a lui quel vuoto che all’inizio sembra piccolo ma che poi cresce, insieme al tempo che passa. Non si entra nel merito del processo, dei fatti contestati e delle prove raccolte in anni di indagini, delle accuse e del mondo di mezzo coinvolto. No, si punta solo all’attacco vile e volgare nei confronti di chi da anni vive una vita blindata, sotto scorta, privata di ogni bellezza. È così, in questo modo, che la delegittimazione si trasforma in un messaggio in codice che qualcuno raccoglierà. Qual è il livello di attenzione che i media riservano a questo processo? Nullo, o poco di più.
Sui giornali che contano lo spazio è minimo, sulle televisioni il silenzio è imbarazzante. Eppure, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, convive da decenni con le minacce, l’ultima ha solo poche settimane di storia alle spalle e si manifesta con una lettera ai carabinieri di Lagonegro, dove il piano del clan Mancuso per eliminare il magistrato appare chiarissimo. “Ho le spalle larghe e i nervi d’acciaio…”, afferma Gratteri e non può essere che così. Una vita sempre sotto scorta, fin da quando nei primi anni della sua carriera la ‘ndrangheta avvisò la sua fidanzata: “Sposi un uomo morto”. Sì, l’uomo e il magistrato hanno le spalle larghe, e nel corso degli anni hanno sferrato colpi durissimi alla ‘ndrangheta. Anche per questo, nel 2004 i Servizi segnalano il rischio di un attentato nei suoi confronti e il livello di scorta e attenzione si alza.
Nicola Gratteri conosce la sua terra, lui che è nato nella Locride. Nicola Gratteri la ama quella sua terra, così come Falcone e Borsellino amavano la loro Sicilia e, come loro, viene delegittimato e attaccato. L’isolamento politico e mediatico solitamente arriva in seguito. Cupole e ‘ndrine leggono, ascoltano gli umori e fiutano l’aria, capiscono quando si fa il vuoto intorno ai loro nemici e in quel vuoto poi si muovono e colpiscono. Lo Stato osserva in disparte, poi ci sarà sempre qualcuno che mostrerà quella vecchia fotografia della Calabria omertosa e connivente dove tutto è immutabile. La Calabria come la Sicilia, è una fotografia che fa comodo a tanti, da sempre. Ma è una fotografia sbagliata e volutamente sfuocata che ha registi occulti e che non racconta tutta la verità di quelle terre. È una fotografia avvolta nella cornice della storia di questo Paese, dove tutto cambia per non cambiare niente. Poi, quando verrà il momento, i coccodrilli si inginocchieranno e pregheranno per l’eroe da celebrare, ma soltanto dopo.
Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org
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