Regolarizzazione. Questa parola, che poi in realtà oggi è una proposta concreta, è venuta fuori timidamente in questa epoca di pandemia. Una necessità che viene legata a una questione esclusivamente economica, ossia il desiderio di venire incontro alle esigenze di alcuni settori, agricoltura in primis, laddove la carenza di manodopera per le stagioni di raccolta ha messo in difficoltà molte imprese. Manodopera, quella stagionale, che è costituita da una buona fetta di cittadini immigrati, in buona parte non stanziali, ossia in continuo movimento da una zona all’altra del Paese per rispondere all’offerta di lavoro. Un lavoro duro, in un settore nel quale la tutela dei diritti è molto spesso assente e le condizioni di vita dei lavoratori sono disumane.
La proposta di regolarizzazione nasce proprio in risposta a una situazione che, con la pandemia, è tornata a diventare visibile, dopo anni di indifferenza, al massimo di piccoli momenti di attenzione, che hanno portato anche a interventi normativi, come la legge attualmente in vigore contro il caporalato, una legge che ha dato qualche strumento in più ma che nei fatti non è abbastanza efficace. Regolarizzare, dunque, è la parola d’ordine. Principalmente per combattere lo sfruttamento nelle campagne o nel mondo dell’assistenza domestica o nell’edilizia, aggiunge qualcuno animato da un tenero ottimismo.
In parte è vero, la regolarizzazione potrebbe dare più opportunità di tutela, ma lo sfruttamento non si sconfigge con un semplice provvedimento normativo. Che va assolutamente fatto, sostenuto e concretizzato al più presto, ma a prescindere dalla situazione lavorativa dei migranti. Perché regolarizzare è soprattutto una questione di diritti e dignità, ma anche di salute. Di riconoscimento dell’esistenza di oltre 600mila esseri umani che sono abbandonati a se stessi, senza una identità nota, senza l’accesso a servizi essenziali che uno Stato civile dovrebbe fornire a qualsiasi persona viva e lavori all’interno dei propri confini. Sanare l’ingiustizia di una burocrazia che da anni fabbrica volontariamente e scientificamente “clandestini” sarebbe innanzitutto un atto di civiltà e di diritto. Alla faccia di chi su quella ferita ha gettato sale per condire consensi elettorali o imbastire affari ignobili. Il problema vero è che la bozza del dl mostra uno strumento scolorito.
Non deve essere una misura fatta per un breve periodo, come si evince dalla bozza del dl del governo. Non solo per i lavoratori di determinati settori e solo per quattro mesi, perché sarebbe vergognoso, sarebbe la prova di un abuso dell’umanità, che verrebbe svilita e offesa, sarebbe un modo di usare il diritto solo in cambio di braccia, un riconoscimento di esistenza usa e getta. Ti uso, ti sfrutto perché mi servi e poi ti butto via. No, questa sarebbe una formula ignobile e disumana. La regolarizzazione va fatta subito per motivi di salute ed estesa a tutti e per un periodo ben più lungo, con la possibilità di convertire i motivi di salute in soggiorno per la ricerca di lavoro. Detto ciò e considerata necessaria e improcrastinabile la regolarizzazione, non si commetta però l’errore di pensare che magicamente, come un incantesimo, tutto cambi in meglio.
Non si pensi che i cantieri edili si riempiano di contratti regolari, né che le colf o le badanti abbiano contratti giusti e condizioni di lavoro umane. Né tantomeno che le campagne vengano liberate da sfruttamento e caporalato. Non si pensi, insomma, che lo sfruttato oggi è solo il migrante irregolare e senza documenti. Perché non è così. C’è una enorme fetta di lavoratori regolari che, nonostante il possesso di documenti, vive nell’inferno del nostro sistema produttivo fondato in gran parte sullo sfruttamento. Ci sono badanti che hanno contratti ma che svolgono il loro lavoro senza che vi sia il minimo rispetto di orari e diritti essenziali, come quello al riposo e alla pausa. Ci sono situazioni di schiavitù legalizzata e basata sull’assenza di controlli e di coscienza sindacale. In molte delle aree di caporalato che opprimono il nostro Paese ci sono tanti braccianti migranti in regola, che però continuano a essere alla mercé dei caporali e a vivere nelle baraccopoli.
Una condizione che, al netto delle rivendicazioni di organizzazioni e sindacati, non è cambiata molto. Le aziende, in molte realtà rurali, hanno iniziato da qualche anno a contrattualizzare per evitare di cascare nelle sanzioni connesse ad eventuali controlli, ma sono contratti che spesso nascondono inganni. O meglio, prevedono paghe che poi vengono decurtate, senza una ragione, ritmi di lavoro estenuanti e orari diversi da quelli pattuiti. Soprattutto non escludono affatto il ricorso al caporalato, alla intermediazione illecita, che è consapevole, è un’abitudine di moltissime imprese, le quali alimentano una selezione illegale basata su meccanismi schiavistici, sulla sottrazione indebita di denaro ai lavoratori. A ciò si aggiunga l’assoluto menefreghismo delle organizzazioni padronali che non si curano delle condizioni di sicurezza e di vita dei lavoratori al servizio delle proprie imprese. Lavoratori costretti a provvedere all’acquisto dei dispositivi di protezione individuale e a trovare da soli una soluzione abitativa. Che molto spesso significa baracche, tende, casolari abbandonati.
Davanti a tutto questo, davanti a una ingiustizia incrostata, rispetto alla quale bisognerebbe provare vergogna e non rivendicare meriti, la regolarizzazione non rappresenta la panacea, la soluzione a tutto. Soluzione che sarebbe da individuare, piuttosto, in una azione durissima di lotta dei sindacati, delle associazioni, delle istituzioni, che dovrebbero aggredire il mondo imprenditoriale che non rispetta le regole, aiutare i migranti a liberarsi da quel bisogno che opprime la loro libertà di rivendicazione. Ai tanti che, in alcune realtà stagnanti nelle quali da oltre vent’anni va in scena l’umiliazione dei diritti (vedi Cassibile), credono di aver fatto il proprio dovere, bisognerebbe ricordare che non si è fatto nulla di quello che davvero serviva ai lavoratori: uno sciopero, un atto dimostrativo forte, un picchetto davanti alle aziende o davanti ai caporali nel momento della selezione mattutina, una denuncia in procura. Né è stato attuato uno sportello gestito da enti locali, sindacati e organizzazioni di categoria, nel quale fare incontrare in modo regolare domanda e offerta, garantendo sulla trasparenza dei rapporti di lavoro e delle paghe. Nulla di tutto ciò. Eppure è ciò che sarebbe servito e che servirebbe.
Il resto sono solo chiacchiere e narcisismo, anche piuttosto imbarazzanti davanti a situazioni che sono sotto gli occhi di tutti e certificano un fallimento collettivo, soprattutto di chi aveva e avrebbe il potere di decidere, di influire, di alzare la voce. La regolarizzazione, dunque, è un passo avanti importante, ma senza l’impegno concreto e quotidiano, senza che si attivino contestualmente meccanismi di contrasto, di controllo e di coscienza sindacale, di messa in stato d’accusa di quella parte marcia del sistema imprenditoriale, lo sfruttamento e le condizioni di miseria esistenti continueranno ad esistere. Ogni giorno che passa la ferita si allarga sempre di più e non bastano certo le parole e le rivendicazioni di parte a sanarla. Né la regolarizzazione sarà sufficiente, da sola, a restituire un mondo del lavoro basato sulla tutela dei diritti.
Massimiliano Perna – ilmegafono.org
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