“La speranza è una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni. La speranza è quella di quelli che ti dicono che Dio…state buoni, state zitti, pregate che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà. Intanto, perciò, adesso, state buoni: ci sarà un aldilà. State buoni, andate a casa e…stanno tutti buoni. Mai avere speranza: la speranza è una trappola, una cosa infame inventata da chi comanda… ” (Mario Monicelli)
C’è un tempo per ogni cosa e per ogni uomo, un tempo per ogni bestia. Ci sono tempi in cui le bestie ritornano, ma in realtà non se ne sono mai andate via: si erano solo nascoste nelle loro tane, mimetizzate. C’è una grande differenza fra gli animali e le bestie, è giusto non dimenticarla mai. Le bestie lo sanno, per questo in genere si nascondono nei labirinti della quotidianità e dell’anonimato. Studiano le strade e le persone, fiutano gli odori e ascoltano gli umori. S’insinuano nelle pieghe di ogni disagio e lo alimentano, lo coltivano con cura fino a farlo crescere. Il disagio sociale è una polvere sottile che entra nelle menti e offusca la vista un giorno alla volta, è una malattia con tempi d’incubazione lunghi. In Italia, ma non solo, ha tempi secolari. Sembrava debellata, ma era solo un’impressione, sembrava… Poi il tempo chiarisce sempre ogni cosa, toglie trucchi e maschere e scopre le carte.
Il Paese Italia ha aperto le tane lasciando uscire tutte le bestie che in quelle tane si erano nascoste, ha sdoganato prima e legittimato poi ogni forma di violenza verbale e fisica. Non è successo ieri, è un’opera meticolosa e paziente che va avanti da tanto tempo: cinquant’anni almeno. Oggi sono in tanti a indignarsi per gli insulti e l’odio di cui è vittima Liliana Segre. Ottantanove anni, una vita da sopravvissuta all’inferno di Auschwitz, Liliana Segre diventa lo specchio in cui questo Paese rifiuta di guardarsi e di vergognarsi. Ma la campagna di odio che su di lei è riversata con tanto disprezzo non nasce nell’ultima settimana, ha radici profonde e lontane. Sono radici che affondano nell’incapacità di un Paese che non ha mai voluto fare i conti con la propria storia e il proprio passato, sono radici cresciute insieme a quella voglia mai nascosta di negare un ventennio fascista che sembra così lontano ma che non è mai stato così vicino, tanto vicino che le parole di quel ventennio sono tornate attuali: la razza, gli italiani, la patria e la famiglia … dio.
Non può sorprendere che tutta la destra italiana, da quella che qualcuno definisce “moderata” a quella “estrema”, si sia trovata unita e concorde nell’isolare Liliana Segre. Come aspettarsi un comportamento diverso da chi va a braccetto con partiti e movimenti politici che s’ispirano apertamente al nazi-fascismo? Davvero qualcuno dimentica che, in questo Parlamento, Stefania Pucciarelli è stata eletta presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani? Stefania Pucciarelli è quella senatrice leghista che rivendica il suo diritto di essere “razzista”, la stessa che sui social non nasconde il suo “mi piace” ad un commento che invocava l’apertura dei forni per i rom, la stessa che ritiene che in Italia non servono nuove leggi per proteggere le minoranze o contrastare il razzismo. Davvero qualcuno dimentica le urla e la violenza delle parole che da anni Matteo Salvini e Giorgia Meloni ogni giorno sputano in faccia ai migranti?
L’antisemitismo non è mai morto, ma troppe volte diventa uno strumento manovrato dalle mani delle stesse destre che oggi lo sventolano in faccia a Liliana Segre. Sono le stesse mani che si agitano contro altre vittime dell’odio razziale: il popolo palestinese, per esempio. Verso quel popolo l’odio diventa indifferenza: non una parola contro la politica dello Stato di Israele che pratica ogni giorno la discriminazione contro quel popolo. Mai una presa di posizione chiara, forte, da parte dei governi amici di Israele: in Palestina si vive circondati da muri di ogni tipo, come nei ghetti creati dai nazisti a Varsavia, come a Roma. Nella striscia di Gaza si muore, e quando non si muore la vita è una scommessa che comincia all’alba e che spesso non arriva al tramonto. Ma tutto tace, e di questo non si parla. Dove comincia e dove finisce il confine fra il senso di colpa dell’Europa, e quindi anche dell’Italia, nei confronti dello Stato di Israele? Dove comincia e dove finisce la condivisione di un pensiero sionista che vede i palestinesi vittime di quel pensiero?
Le bestie che escono dalle tane hanno tolto ogni maschera, mostrano il volto e il ghigno. Nel mirino non c’è solo Liliana Segre: in quel mirino ci sono Rom, migranti, omosessuali e lesbiche e tutti quelli che in qualche modo escono dal recinto di quella normalità piatta e volgare, sempre allineata. Nella primavera scorsa Verona celebrava il primo “Congresso Mondiale delle famiglie”. Dio, Patria e Famiglia, erano le parole d’ordine di quel giorno che portava l’oscurantismo sul gradino più alto del suo altare. Tutta la destra quel giorno era li.
In quel mirino è entrato Mimmo Lucano, e su di lui è calata la scure del potere. Il tempo passa e nulla potrà restituire a Mimmo Lucano quello che gli è stato rubato. Lui ha conosciuto la campagna dell’odio, l’ha vissuta sulla sua pelle. Quell’odio ha nomi e cognomi, e lo sappiamo tutti. Nello stesso mirino oggi c’è anche chi cerca spazi diversi, costruendo ponti e offrendo cultura. Nel quartiere Centocelle di Roma il fuoco brucia la caffetteria e libreria antifascista “La Pecora Elettrica“. Era già successo il 25 aprile, il locale avrebbe riaperto le sue porte in questi giorni. In quel quartiere la “Pecora Elettrica” rappresentava un presidio di socialità, un punto d’incontro e di cultura condivisa. Che strano, anche gli squadristi fascisti e nazisti bruciavano libri e librerie. I libri hanno sempre fatto paura: gettano semi, raccontano, costringono a pensare e il pensiero può cambiare la storia.
Per questo si bruciano libri e librerie. Roberto Canali è il sindaco di Predappio e racconta che secondo lui “i treni della memoria vanno solo da una parte… quando i treni faranno soste anche alle foibe e nei gulag ci ripenseremo”. Con questa tesi, vile e vergognosa, giustifica e nega il contributo al progetto “Promemoria Auschwitz – treno della Memoria” (leggi qui). Nel Paese dove si organizzano e si finanziano cene per commemorare la marcia su Roma cui partecipano anche sindaci che poi definiscono la cosa solo “una goliardata”, nulla può essere considerato una sorpresa. Questo è il Paese dove Matteo Salvini detta le regole, fiutando gli umori e coltivando il disagio, tutto può essere tranne una sorpresa. Quest’anno cade il cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana. Quel giorno, in quella banca e negli uffici della questura di Milano, venne scritta la prima pagina di un libro nero che continua ancora oggi.
Quel libro contiene le vergogne, i silenzi e le complicità di un Paese che oggi come allora non vuole cambiare pelle. Quel libro racconta le radici di tante storie, racconta come le bestie ritornano perché in realtà non se ne sono mai andate via: si erano solo nascoste nelle loro tane, mimetizzate e protette. Quel libro racconta che solo la partecipazione e la lotta possono cambiare il corso delle cose, ma partecipazione e lotta sembrano sempre più un’utopia in un Paese che ha preferito scegliere l’indifferenza e il silenzio quando non la complicità. Quel libro ci dice che Mario Monicelli aveva ragione: “la speranza è una trappola, una cosa infame inventata da chi comanda”.
Poi ci sarà sempre chi non si adegua e sceglie di non aver paura dei mulini a vento e anzi li cerca, ogni giorno, anche se sa che andrà a sbattere il naso. Non è speranza, ha un altro nome: si chiama dignità.
Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org
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