“Non vedo e non parlo con i miei genitori da 5 anni. Hanno imprigionato mio padre. I miei fratelli non riescono a trovare lavoro. Il mio passaporto è revocato. È stato emesso un mandato di arresto internazionale. La mia famiglia non può lasciare il Paese. Ogni giorno ricevo minacce di morte. Sono attaccato, molestato. Hanno cercato di rapirmi in Indonesia. LA LIBERTÀ NON È GRATUITA”. Lo ha scritto su twitter Enes Kanter, campione turco di pallacanestro, in forza ai Boston Celtics. Che la libertà non è gratuita lo ha scritto in maiuscolo. Un urlo, nel gergo del web. Uno sfogo per tutto quello che avviene nel suo Paese, la Turchia. Un Paese che da anni, nel silenzio della comunità internazionale, esercita una stretta autoritaria al proprio interno. Epurazioni, persecuzioni e arresti sommari nei confronti di chiunque esprima una critica o una qualsiasi forma di dissenso nei confronti del presidente Erdogan, dittatore de facto della nazione ottomana.
Un regno violento, un regime al quale l’Europa, in nome dei propri interessi e dei propri egoismi, ha scelto di lasciare mano libera. Non una parola, infatti, davanti all’autoritarismo che ha riportato indietro il Paese di secoli. Non un bisbiglio davanti alla persecuzione etnica degli oppositori curdi, filocurdi e non solo. Nemmeno un filo di voce quando, al confine con la Siria, i turchi lasciavano passare i foreign fighters che andavano a rinforzare le milizie dell’IS. Silenzio. C’erano troppi affari in ballo, dalle armi al commercio, fino a quell’accordo sui migranti che serviva politicamente a un’Europa che su immigrazione e “difesa dei propri confini” ha costruito forme di consenso (ed esperienze di governo) in ogni nazione. Difesa dei propri confini, poi, da chi? Da masse di disperati in fuga da teatri di guerra e povertà edificati in buona parte dagli stessi paesi che oggi si chiudono.
Paesi che addirittura arrivano a pagare uno Stato per fare il lavoro sporco, ossia trattenere i migranti, non lasciarli partire, respingerli verso la guerra e la violenza. L’Europa ha preferito lasciarsi ricattare, invece di agire e lavorare per corridoi umanitari, accoglienza diffusa, azioni internazionali diplomatiche mirate alla risoluzione dei conflitti e a una cooperazione che vada ad aiutare le popolazioni che vivono in contesti drammatici. L’Europa ha scelto di pagare il pizzo a un criminale. Non per proteggersi dai criminali. Ma per proteggersi da se stessa e dal proprio egoismo. Paga un criminale che faccia quello che questo continente apertamente non può fare, perché significherebbe rinunciare alle giustificazioni, all’ipocrisia. Significherebbe ammettere di essere molto peggio di quel che è. Come dimostra la grande bugia delle armi e degli stop chiesti a parole (o solo per i contratti nuovi) e che peraltro risolvono molto poco (perché le armi si possono comprare anche altrove).
L’unica cosa, infatti, che potrebbe risolvere questa vicenda è…la libertà. Liberarsi cioè del ricatto e della propria cattiva coscienza, degli errori ripetuti in questi anni. Liberarsi accettando che Erdogan lasci partire i profughi. Anzi, andarli a prendere e portarli in sicurezza nei tanti Paesi che compongono l’Unione. E lavorare seriamente alla interazione tra accoglienti e accolti. Fare questa scelta infischiandosene dell’impopolarità e al contempo togliendo qualsiasi credito a Erdogan. E magari intervenire militarmente a difesa dei curdi che hanno lottato contro l’IS per la nostra libertà. Impossibile? No. Ma ci vorrebbe una classe dirigente europea forte e capace di ridisegnare le proprie politiche. In Turchia come in Libia, ma anche dentro i propri confini.
La libertà però ha un prezzo. Non è gratuita. E il primo prezzo da pagare sarebbe l’ammissione della propria responsabilità su quel che accade in Turchia e in Siria. L’ammissione di una vigliaccheria politica senza pari. La stessa mostrata dai vertici dello sport e, in particolare, del calcio europeo. L’Uefa tentenna, non prende provvedimenti, continua a mantenere salda l’idea di far giocare la finale di Champions League il prossimo 30 maggio proprio a Istanbul. Ma soprattutto si mostra molle davanti all’arroganza dei calciatori turchi che, dai messaggi di sostegno a Erdogan espressi sui loro canali social, sono passati rapidamente alle squallide manifestazioni sul campo, con i saluti militari in onore del loro presidente. Davanti ai massacri di civili, alle immagini di corpi dilaniati, sangue, lacrime, disperazione, ci sono atleti, sportivi che parteggiano per l’orrore e lo mostrano pure. Perché qualcuno glielo permette. Senza far nulla. A parte annunciare l’apertura di un’inchiesta che al massimo, se va bene, dispenserà qualche multa o qualche giornata di squalifica.
Poco più che un solletico, perché l’unica scelta logica sarebbe estromettere Turchia e club turchi da tutte le competizioni europee, come si è fatto in passato con la Jugoslavia, durante la guerra dei Balcani, e come si è fatto per il fair play finanziario o per le violenze di ultras che hanno portato all’esclusione di alcuni club. Evidentemente le bombe e le violenze sui curdi contano meno per l’Uefa. Qualcuno dice che i giocatori turchi non hanno possibilità di scelta, visto quel che accade a chi si oppone a Erdogan. Ma se anche fosse così, davvero potremmo giustificare questa codardia? E soprattutto, la cosa impedisce all’Uefa di cacciare la Turchia dalle sue manifestazioni? La risposta è nelle parole di altri sportivi, come appunto Enes Kanter, il cestista le cui parole abbiamo citato poc’anzi.
La libertà non è gratuita, costa. Ma è pur sempre migliore di una gratuita assenza di dignità, di un gratuito quanto osceno servilismo. Nello sport, a maggior ragione, l’esempio non può essere quello dei calciatori turchi. Così come non può essere quello dell’Uefa o delle società di calcio europee proprietarie dei cartellini di alcuni di questi calciatori, che non hanno mosso un dito, né presentato una multa nei confronti dei loro dipendenti. Silenzio assordante. Per fortuna ci ha pensato il St. Pauli, formazione di seconda divisione tedesca, da sempre attenta ai temi dell’antirazzismo, della solidarietà e della pace, a dare dignità allo sport, licenziando un suo tesserato che ha inneggiato a Erdogan. Ecco, un esempio da seguire ora lo abbiamo. E non solo nello sport.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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