Veritas est adaequatio rei et intellectus”. La verità è la corrispondenza della cosa all’intelletto. Lo diceva Tommaso d’Aquino e lo so, aprire un pezzo con una citazione di Tommaso d’Aquino, per di più in latino, può apparire fastidioso. Ma questa è la realtà. La realtà nel suo concetto intimo di “res”, che sta alla base di quella frase di Tommaso D’Aquino. O “rāḥ”, per dirla in sanscrito, cioè “possesso, bene, ricchezza”. Insomma: sono tutte citazioni per chiarire quanto, per la storia dell’umanità, sia stata importante la realtà, anzi: la percezione della realtà. Perché oggi in Italia, terra madre dello stesso termine, la stiamo perdendo. E non è retorica: stando a una recente ricerca dell’Ipsos l’Italia è prima, tra 15 paesi dell’Ocse, per distanza tra percezione e realtà.

Il professor Nando Pagnoncelli, che di Ipsos Italia è il presidente, ha spiegato, statistiche alla mano, che gli italiani stanno messi abbastanza male: credono, ad esempio, che l’economia dell’Italia faccia il paio con la Grecia, quando invece la Grecia ha un pil che può fare il paio al massimo con la Lombardia; oppure che quasi la metà degli italiani abbia più di sessantacinque anni, quando invece il totale corrisponde al 22% (neanche uno su quattro). O, ancora, come secondo il 64% degli italiani, dal 2000 ad oggi si rischi sempre di più che ad ogni angolo di strada ci si possa far sparare o accoltellare, quando invece gli omicidi hanno visto un calo addirittura del 47%. E poi gli immigrati, un must: gli italiani sbraitanti sono convinti che siano uno su quattro, cioè il 25% della popolazione, mentre la realtà ci racconta che sono appena il 7%; e i clandestini, oggetto di urla ancora maggiori, secondo le stime di quasi la metà dei nostri connazionali sarebbero più dei regolari, mentre il dato reale spiega che rappresentano circa il 10% del totale.

Insomma: stiamo messi male. Siamo miopi, e manco ce ne accorgiamo. Per fortuna, però, c’è chi potrebbe darci una mano. Sì, perché a considerare i tempi che attraversiamo, sono i social e quello che dentro di loro leggiamo e vediamo a orientare il nostro pensiero: da Oxford ci hanno spiegato che i bot (che potremmo considerare veri e propri automi digitali che interagiscono con noi sulle reti social, spacciandosi per esseri umani) possono essere usati in maniera abbastanza efficace per rendere popolari determinate idee. E se consideriamo il dato di Doxa del 2018, secondo il quale  il tasso di digitalizzazione medio della popolazione italiana alla fine del 2017 era del 68% (dato in crescita), è facile fare due più due. “Dove starebbe la fortuna?”, vi chiedete? Beh, è successo che Instagram, il social che potremmo considerare più chic, ha lanciato una rivoluzione mica da niente: basta con la visualizzazione pubblica del numero dei like, ha detto.

“Vogliamo che Instagram sia un luogo dove tutti possano sentirsi liberi di esprimere se stessi. Ciò significa aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti like ricevono”, ha spiegato Tara Hopkins dai piani alti del social. Pare che l’idea sia nata da una ricerca di Kaspersky secondo la quale, tra le altre cose, solo un utente su tre non si preoccupava del numero di like ricevuto quando pubblicava un post, e addirittura il 24% degli uomini e il 17% delle donne si arrabbiava se non li riceveva secondo le aspettative iniziali. Pubblicare per pubblicare e non per gareggiare, dunque, è il nuovo imperativo. Qualcuno ha parlato di fine degli influencer, e potrebbe anche darsi, ma la cosa interessante è che forse potremmo smettere di assistere al fenomeno del clickbait, che di danni ne ha fatti parecchi. Perché se è vero che anche Facebook ha annunciato l’intenzione di occuparsi dei like, eliminando il numero di visualizzazioni, allora una speranza c’è. Certo, questo non significa che i fake subiranno un colpo mortale (difficilmente esiste un mezzo che possa contrastarli seriamente), ma significa che qualcosa si muove.

Abbiamo dovuto assistere alla vendita galattica del libro “Le corna stanno bene su tutto. Ma io stavo meglio senza!”, di Giulia De Lellis, continuando a chiederci come è possibile, ma sapevamo in cuor nostro che si trattava solo del risultato di tutti quei numeri enunciati qualche riga fa. Il valore del contenitore supera il contenuto nella società dei social, e ben venga per la ghost writer della De Lellis, Stella Pupa (avrei voluto essere al suo posto), ma non possiamo non valutare la serietà del momento culturale che attraversiamo e l’incapacità di far fronte al crollo di interessi di fronte a “M” di Scurati o a “La ragazza che guardava fuori” della Franco o a “La mattina dopo” di Calabresi. Sono usciti con la De Lellis (Scurati, meno recente, ha avuto la spinta dello “Strega” poco prima), ma le corna sono sopra di loro. In fondo pare che stiano bene su tutto.

Adesso però potremmo vedere uno spiraglio di luce, in fondo. Perché questa scelta anti-like targata Zuckerberg arriva subito dopo l’apice del potere degli urlatori, appena dopo la caduta di Salvini per autosgambetto. Arriva mentre si parla di vere reazioni ai cori razzisti negli stadi, mentre Alberto Angela batte Maria De Filippi nelle sfide tv, mentre il Grosseto licenzia il viceallenatore dei Giovanissimi per gli insulti sessisti a Greta Thunberg. Succede tutto insieme, nel momento in cui sembriamo scollarci dalla realtà quasi inesorabilmente, facendoci risucchiare dai contenitori come nelle capsule di Matrix.

Magari sarà che, come ci ha raccontato “La guerra dei mondi”, abbiamo sviluppato gli anticorpi giusti che all’ultimo momento ci salvano dall’invasione. Non lo so, ma so che non conterò i like sul pezzo. Giuro.

Seba Ambra -ilmegafono.org