L’ultimo Rapporto sulla Protezione Internazionale in Italia 2017,  presentato a Roma nei giorni scorsi, è un documento riassuntivo sull’accoglienza e il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Il volume, pubblicato per il quarto anno consecutivo, è il concreto risultato del lavoro e della sinergia tra ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes, Servizio centrale dello SPRA, in collaborazione con UNHCR.

Il primo dato significativo è che, su scala globale, il numero complessivo di chi scappa da guerre, calamità naturali e persecuzioni è in continuo aumento: la fotografia scattata alla fine del 2016 registra infatti un numero di 65,6 milioni di persone (300 mila unità in più rispetto al 2015), di cui il 51% sono minori, nella maggioranza dei casi non accompagnati. Il 55% dei rifugiati di tutto il mondo proviene da Siria, Afghanistan e Sud Sudan. Con quasi 3 milioni di rifugiati, la Turchia è il Paese che ne ospita di più, mentre il maggior numero di richieste d’asilo nel mondo nel corso del 2016 si rivolgono alla Germania e agli Stati Uniti.

Il dato più eloquente in Europa è che nei primi sei mesi del 2017 si verifica un sostanziale calo di domande di protezione internazionale rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-43,3%). Per quanto riguarda invece la situazione italiana, si registra un forte calo degli sbarchi (-30%) e contemporaneamente le domande di protezione quasi raddoppiano (+44% rispetto all’anno scorso). Dal rapporto si evince che alla data del 15 luglio 2017 le presenze dei migranti ospitati nelle strutture d’accoglienza arrivano a quota 205 mila, di cui il 78% vengono ospitati presso i CAS (Centri di accoglienza straordinaria) e il 14% dagli SPRAR (il restante 8% sono gestiti nelle strutture di prima accoglienza).

Si parla di un trend positivo per quanto riguarda i Comuni italiani che accolgono richiedenti asilo, arrivando a coprire il 40% del totale (3.231 Comuni). Le regioni più virtuose, invece, dal punto di vista del coinvolgimento nei processi di accoglienza, sono la Lombardia (13,2%) e la Campania (9,3%), mentre solo i Comuni della Toscana e dell’Emilia Romagna riescono a sfiorare cifre da record, accogliendo all’incirca l’80% dei richiedenti asilo e quindi raggiungendo il principio di accoglienza diffusa.

Ma se il sistema di accoglienza SPRAR funziona e quindi produce, nel suo piccolo, concreti risultati in termini di effettiva integrazione delle persone seguite e diminuzione dei tempi di permanenza nelle strutture d’accoglienza, i CAS rimangono le strutture più utilizzate, anche se con l’accoglienza straordinaria non hanno quasi più niente a che vedere. Degno di nota anche il contributo delle 139 diocesi coinvolte nell’accoglienza (su un totale di 220), che hanno accolto oltre 23.200 richiedenti asilo o titolari di una forma di protezione.

Questa settimana (il 20 novembre) si è celebrata la Giornata Internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, è pertanto utile ricordare anche la situazione aggiornata dei minori stranieri non accompagnati sbarcati sulle coste italiane: a fine ottobre si registra una presenza di oltre 14 mila, di cui la maggioranza guineani, ivoriani e bengalesi. Complessivamente, i MSNA presenti in Italia sono oltre 18 mila (dato aggiornato al 30 settembre) e al momento sono accolti in 2.039 strutture su tutto il territorio.

Nonostante il “Piano nazionale per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari, adulti, famiglie e minori stranieri non accompagnati”, definito durante la Conferenza Unificata del luglio 2014, concretizzato normativamente con il Decreto Legislativo 142/2015 e integrato successivamente dalla più recente Legge 47/2017, il
Rapporto parla di un sistema “fortemente disomogeneo” per quel che concerne la presa in carico e la gestione di MSNA.

La criticità maggiore riguarda il fatto che la stragrande maggioranza dei minori viene assegnata a strutture di prima accoglienza all’interno delle quali rischiano di stazionare per periodi che superano i 60 giorni previsti dalla normativa. Si parla anche di permanenze prolungate negli stessi hotspot (i primi centri dedicati all’identificazione e primo soccorso), dove in realtà non devono superare le 48 ore. Tutto questo non può che avere conseguenze disastrose sulla condizione psicofisica dei minori coinvolti.

Tralasciando la situazione italiana, non ci si dovrebbe stupire, quindi, dell’ennesima triste notizia risalente a qualche giorno fa e che arriva dall’Austria: un bambino afgano di 11 anni che, da circa un anno, viveva con la sua famiglia all’interno di un campo profughi a Baden, sì è suicidato. Le autorità stanno indagando, ma pare che la famiglia vivesse in condizioni di estrema difficoltà. Forse era diventato pesante e angosciante prendersi in carico la sorte dei sei fratelli (di cui uno con la sindrome di Down), dopo tutto quello che aveva già vissuto per arrivare nella civile Europa. Forse era troppa la paura di essere rimpatriato dopo essere stato sorpreso a rubare del cibo in un negozio di alimentari per assicurare la sussitenza dei suoi cari.

O forse semplicemente era da troppo tempo che si trovava ingabbiato in un contesto che non gli assicurava una condizione, anche minima, di serenità che a 11 anni è solo ed esclusivamente un diritto che dovrebbe essere garantito.

AdrenAlina -ilmegafono.org