Viaggiare aiuta ad allargare gli orizzonti e anche a conoscere meglio la realtà. Se hai la fortuna di spostarti spesso lungo l’Italia, può accadere di incontrare persone di ogni tipo, parlare con loro e magari ascoltare le loro storie. Le più interessanti le ascolti se viaggi in economy o comunque in contesti non esclusivi. Alle stazioni, negli aeroporti, mentre attendi, oppure in treno e in aereo mentre viaggi, soprattutto a ridosso di una festività, non è difficile incontrare donne sole o accompagnate dai loro bambini. Indaffarate, gestiscono la prole e i bagagli, mentre con il telefono chiamano il marito o la famiglia per avvisare dell’orario di arrivo o di un eventuale ritardo.

Capita di scambiare due parole con loro, che hanno un accento come il tuo o comunque del Sud, e di scoprire che sono insegnanti. Molto spesso precarie. Quattro, sei o otto mesi di cattedra a Milano, Bergamo, Brescia, Pavia o in qualche paesino sperduto che nemmeno hai mai sentito nominare. O in Piemonte o in Veneto o altrove. È l’esercito delle insegnanti che dal Meridione si spostano al Nord, per lavorare, perché al Nord ci sono pochi insegnanti e tanti posti, mentre al Sud è il contrario. Molte di loro hanno famiglia e se i bambini sono piccoli li portano con sé. Sono sole, perché i mariti lavorano giù e non possono spostarsi. E non sempre è possibile contare sull’aiuto dei genitori. Sono storie vere di questo Paese, nel quale ci si dimentica troppo di frequente quali siano i sacrifici che migliaia di lavoratori del Sud affrontano pur di lavorare.

Qualche giorno fa, un ministro della Repubblica ha detto che alle scuole del Sud non servono risorse ma più sacrificio e più impegno. Il ministro si chiama Marco Bussetti, è della Lega e probabilmente viaggia sempre in business e mai in economy. Di certo non possiamo pretendere che un leghista possa conoscere la storia di questo Paese e del Mezzogiorno, il valore storico delle sue maestranze e intelligenze, né che possa avere una visione chiara dell’Italia degli ultimi anni, vista la distorsione della realtà e l’inquinamento della ragione prodotti dal suo partito e dal suo leader. E a nulla vale la precisazione successiva di Bussetti, che afferma di esser stato frainteso e assicura di avere collaboratori meridionali. Un po’ sullo stile di chi è omofobo ma assicura di avere amici gay o di chi è razzista ma ti racconta di aver parlato una volta con l’immigrato al semaforo.

Non possiamo attenderci nulla da chi ha in testa di rendere concreto il cosiddetto regionalismo differenziato, che tante (giustificate) polemiche ha suscitato. Non possiamo attenderci nulla da chi, al netto dei falsi sorrisi, del nuovo nome del partito (che ha fatto sparire il “Nord” dal simbolo), del rinnovamento dello stock di felpe e delle foto con l’arancino o arancina, da sempre detesta il Meridione. Quello che invece dovremmo pretendere è di non essere presi in giro da chi oggi protesta, si lamenta, chiede a Bussetti di scusarsi, pur facendo parte della stessa compagine di governo.

Avere le scuse di Bussetti non serve. Perché quel che serve è ben altro. Sono gli investimenti sull’istruzione e sulla ricerca, sull’occupazione, la promozione di uno sviluppo sostenibile che fermi quei progetti mirati a distruggere ancora una volta un territorio già devastato da decenni di politiche predatorie. Quello che serve è un intervento serio a sostegno dell’economia pulita, con una strategia efficace di contrasto a mafie e malaffare e di lotta vera a evasione e lavoro nero, a Nord come a Sud. Serve un governo che sappia governare e includere. Tutte cose che sono state schiacciate da una linea di governo basata quasi interamente sulla guerra ai disperati o su misure assistenzialiste inutili, inique e facilmente oggetto di attività fraudolente, come il reddito di cittadinanza.

Non abbiamo visto nulla che riguardasse il Sud, se non lo schizofrenico rapporto con la vicenda Tap o l’imbarazzante via libera ad alcuni scellerati progetti di trivellazione petrolifera. Cioè, esattamente l’opposto di quanto la forza maggioritaria del governo aveva promesso in campagna elettorale. Non ci sarà da stupirsi allora se gli investimenti su istruzione e ricerca finiranno nelle regioni più ricche. Che sono ricche, è bene ricordarlo, anche grazie al lavoro di centinaia di migliaia di emigranti meridionali. Di prima, seconda, terza e pure quarta generazione. E sono ricche, ribadiamolo, anche in virtù di fatti storici che risalgono all’Italia dell’Unità, inclusi i saccheggi violenti di beni e risorse di aree del Paese che erano molto più floride di quanto non si creda.

Per carità, nessun vittimismo, perché le responsabilità storiche sono sempre da redistribuire fra più soggetti, ma di certo al ministro bisognerebbe suggerire un bel corso di storia del Mezzogiorno. Recente e meno recente. E al contempo bisognerebbe suggerirgli di viaggiare un po’ di più da Nord a Sud. Lo stesso corso di storia andrebbe consigliato anche a qualche esponente di spicco del governo, meridionale e pentastellato, che alza la voce solo adesso e in modo anche piuttosto goffo.

Perché oggi, dopo il crollo del Movimento in Abruzzo, è facile capire che tutto quel consenso era in gran parte figlio di un malcontento e di una protesta. Un consenso facile da ottenere quando si punta il dito su un sistema malato e si promettono medicine miracolose. Ma quando poi i problemi sei tu a doverli risolvere e per farlo ti allei con parte di quel sistema che reputi, a torto e in modo arbitrario e sciocco, meno compromessa di altre, le cose cambiano. E se mostri incapacità, se ti rimangi le promesse più importanti e ripeti (e perfino peggiori) gli errori di chi ti ha preceduto, va a finire che quel consenso crolla e restano solo le macerie da ripulire.

Nessun elettore può avere la pretesa che le promesse si realizzino in un giorno, ma se, dopo quasi un anno, hai trascorso gran parte del tuo tempo a fare l’utile idiota di qualcuno che avresti dovuto combattere, è evidente che c’è qualche problema. E sicuramente, il problema più grosso non è rappresentato dalle parole infelici e offensive di un ministro. Né dal televoto di Sanremo o dal presunto complotto di una giuria di presunti “radical chic”. Perché che il Paese lo stai perdendo, non è certo l’esito di un frivolo festival musicale a dovertelo far capire.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org