Era giugno, e tutti imparavamo a conoscere il nuovo presidente del Consiglio dei Ministri, Conte. Conte, il premier. Oggi lo conosciamo tutti, il premier Conte, e lo conosciamo proprio come “il premier Conte” – a me il nome, lo dico francamente, non viene mai in mente. Qualcosa è cambiato, quindi, almeno nell’ordine grammaticale. In me, però, sono rimasti alcuni termini di paragone acquisiti all’alba dei gialloverdi: a giugno, ad esempio, scrivendo di lui e del suo discorso al Senato (le vibranti tredici parole spese contro la mafia), mi venne in mente il finale epico de “Gli intoccabili”, paragonandolo all’aula che si alza in piedi e urla “fuori la mafia dallo Stato”, e oggi il film di Brian De Palma mi è tornato in mente, sempre grazie a… il premier Conte.

Stavolta a bussarmi in testa è stata la memorabile frase di De Niro/Capone: “Sei solo chiacchiere e distintivo”. È arrivata senza preavviso, non appena ho letto della questione delle coperture economiche in merito al decreto sul ponte di Genova, dopo i ripetuti annunci del premier. Subito dopo ho letto pure la questione dell’abolizione della povertà targata Di Maio, e nella mia testa la voce di De Niro ha cominciato a urlare “sei solo chiacchiere e preventivo!”. Chiacchiere e preventivo.

Perché a questo punto la questione pare finalmente delinearsi, almeno ai miei occhi: l’era dei proclami sta per finire, e a breve gli uffici presenteranno il conto. Perché è più che plausibile che durante la campagna elettorale si facciano proclami – Salvini con le accise della benzina è un esempio che i trattati di scienze politiche potranno utilizzare, un po’ come il memorabile milione di posti di lavoro di Berlusconi – ma che si continuino a fare durante il mandato, e per di più a seguito di una tragedia, diventa intollerabile. Ed è per questo che, a vederla male, il conto potrebbe arrivare a breve.

Preventivi, sempre preventivi, annunci, proclami. Il reddito di cittadinanza, ormai, sta per crollare sulle teste degli eletti (e pure dei non eletti, considerando l’ex gieffino Casalino che non capisce come non si possano trovare “dieci miliardi del c…”), e la tensione sale: le coperture – è ogni giorno più evidente – sono difficilissime da reperire, e il ministro Tria è abbastanza probabile che lo sappia. Il suo braccio di ferro per la questione del Pil sa tanto di tentativo di evitare che resti col cerino in mano: se dovesse succedere (tocchiamo ferro, facciamo corna, buttiamo sale in aria) che i mercati arrivino a divorare l’Italia non vorrebbe mai che a Piazza Affari il suo nome finisse appeso ai monitor.

Solo che i proclami a lungo andare cominciano a diventare troppi, talmente tanti che uno non riesce più a scordarseli – come dovrebbe essere nello status stesso dei proclami: uno li lancia, poi si perdono – Si accumulano. In questi giorni alcuni giornali hanno riempito le pagine con la cronologia post-crollo: dal 18 agosto al 23 settembre si sono susseguite 18 notizie da prima pagina che avrebbero dovuto culminare nell’agognato decreto con tanto di nome del Commissario alla ricostruzione, ma il 26 settembre spunta fuori l’indiscrezione dei puntini di sospensione al posto delle cifre, col Ministero delle Finanze che storce il muso e sembra chiedere “ma come dovremmo lavorare noi?”.

Il giorno dopo, a seguito dei pugni sbattuti sul tavolo da Conte (che forse in lontananza sentiva la voce di De Niro), fonti del Ministero riferiscono che “il decreto è stato bollinato”, come se quella storia delle cifre mancanti non fosse mai esistita, solo che sugli “omissis” resta un imbarazzo, lì al Ministero, che conferma l’andatura dei proclami.
Alla luce di questo non si capisce proprio come Di Maio possa andare in tv (lì dove nel paleolitico del Movimento vigeva un terrificante divieto) e lanciare una sensazionalistica abolizione della povertà. Abolizione.

Cavolo, a me fa venire in mente le ristrutturazioni delle case imbarcate dalle giovani coppie che si lanciano sui mutui, col computo metrico dell’ingegnere che dice una cosa, promette uno sforamento al massimo del 5 o 10 per cento, e con un lento salasso giorno per giorno (“serve un calorifero anche lì”) e il conseguente risultato dell’abbandono delle prospettive iniziali dopo aver già superato il 10 per cento già prima del giro di boa: inevitabile finale con cestinamento del computo metrico e relativa promessa di non fare mai più scelte simili, in attesa di capire come affrontare le spese degli anni a venire.

Il countdown, comunque, sta per giungere al culmine: il 20 ottobre c’è in calendario, per il Parlamento, la legge di bilancio, e a quel punto rimarrà solo da capire se a temere l’ira del tanto amato “popolo” dovranno essere i tecnici del Mef o quelli che li odiano perché “questi non ti permettono di capire”.

Seba Ambra -ilmegafono.org