Per un periodo della mia vita c’è stata una cravatta a farmi compagnia, durante il lavoro, chiusa il più delle volte in borsa. Col pc, la moleskine, le penne e la macchina fotografica lei se ne stava buona, arrotolata su sé stessa. Lavoravo a un centinaio di metri da Montecitorio e mi capitava di andare lì, al palazzo, per le conferenze stampa: la cravatta, una volta dentro, doveva far parte della mise, e a gruppetti spesso le tiravamo fuori mentre, sulla porta, gli uscieri controllavano l’aspetto con fare vagamente annoiato, prima di passare ai documenti. È stato un bel periodo, anche se faticoso.
Una volta mi intrufolai fra i fotografi per riprendere il Consiglio dei Ministri prima della conferenza, salvo sentirmi tirare dal collo da un usciere che considerava la mia piccola Canon decisamente fuori luogo per un ambiente di fotografi veri. Sì, mi capitava di provare a curiosare lì, dentro quelle sale, fra corridoi lunghissimi e stanze e stanzette. Ogni tanto ci entravo, nelle stanze, per realizzare o seguire delle interviste, e in quel caso potevo assistere, fortuitamente, a improvvisate riunioni fra gruppi. Conservo ricordi singolari di queste riunioni, ricordi che hanno fatto maturare un’idea di politica abbastanza differente da quella che avevo annidato nella mia testa durante gli anni universitari.
Perché non erano rari i ragionamenti costruiti unicamente sul concetto di do ut des, al netto delle ideologie, e a volte rimanevo colpito da alcuni esponenti dei partiti più vicini alle mie idee che facevano quasi i conti col pallottoliere pur di portare a casa una mozione, sacrificandone magari due o tre sulle quali uno come me avrebbe fatto le barricate. Insomma: pensavo ai ragionamenti nelle piccole sezioni locali che venivano accartocciate in discussioni di profitto politico, con veri e propri scambi da mercato delle idee. Questo, chiaramente, avveniva ad ogni latitudine: destra, sinistra, centro e sfumature varie.
Cominciai, da allora, a considerare la politica come andrebbe considerata. In modo realistico, quello fondato sulla storia. E oggi ci ripenso. Ripenso a cosa è la politica. A cosa sono i partiti e a come ci si muove nelle lotte per ottenere un successo. E ci ripenso perché continuo ad osservare, senza cravatta ma con la stessa curiosità di allora, le mosse del governo attuale, quello chiamato “gialloverde”. Non ci vedo più politica. Non riesco a vedere manovre dietro i proclami. Vedo una instancabile, continua propaganda. Che è diversa, totalmente diversa, dalla politica. Treccani ci dice che la propaganda è “un tentativo deliberato e sistematico di plasmare percezioni, manipolare cognizioni e dirigere il comportamento al fine di ottenere una risposta che favorisca gli intenti di chi lo mette in atto”. E questa non è politica.
Brandire i simboli di una religione non è fare politica: è chiara propaganda. Far leva sul dogma, sul rispetto antico e annidato nelle coscienze dei più in un Paese che contiene il Vaticano significa tentare di accrescere il consenso, e basta. Non c’è niente di religioso, niente di sacro, niente di spirituale. Tutto il contrario. Perché anche il più debole ragionamento renderebbe chiaro come questo modo di fare sta all’antitesi della religione: sfruttare le coscienze offrendo una visione parziale e chirurgicamente privata dei concetti fondanti va contro la religione stessa. È una bugia, per dirla con semplicità. Con la stessa semplicità con cui si parla di crocifissi.
Salvini nei fatti si comporta andando contro quello che è predicato nei Vangeli, e sulla carta lo si potrebbe non far notare, se non fosse che sfrutta proprio i Vangeli per comportarsi in quel modo. E allora che gli volete dire ai preti che scrivono “rispetto a quanto accade non intendiamo né volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti aggressivi”? Che gli volete dire a quelli che pubblicamente affermano “non possiamo lasciare che inquietudini e paure condizionino le nostre scelte, determino le nostre risposte, alimentino un clima di diffidenza e disprezzo, di rabbia e rifiuto”? Gli volete parlare dei pedofili, delle opulenze, del massacro del tredici ottobre del 1307? E che c’entra? Che c’entra con la religione? A essere pedofili sono gli uomini, così come a sfruttare le ricchezze.
La religione è un’altra cosa, ed è abbastanza retorico ricordare che di sacerdoti venuti su come dio ha comandato ce ne sono tanti. E la religione in quel caso è dalla loro parte. Va riconosciuto, che uno sia credente o meno. Io quelle parole le sento pronunciate da loro, da quei sacerdoti. Dalle loro periferie, dalle loro missioni. Non è umanamente accettabile un uso distorto della religione, qualunque essa sia. Insomma: piombare indietro di 1700 anni, ai tempi della battaglia di ponte Milvio con Costantino che vede la croce in cielo e lo dice in giro per mostrarsi invincibile, non è davvero plausibile.
Non è plausibile farlo, e farlo solo per giustificare la parte peggiore della coscienza dell’Italia. Anche perché oggi a vincere con quel segno, cioè sotto il simbolo di un uomo che sulla croce dona speranza al ladro che ha accanto dicendo che se lo porterà in paradiso, non può essere chi se la prende coi disperati. Insomma: se un altro mondo c’è e voi ci credete e lo predicate, e allo stesso tempo inneggiate all’uomo dei crocifissi nei porti, brucerete all’inferno. Nel girone degli stronzi.
Seba Ambra -ilmegafono.org
Commenti recenti