«Avevo sette anni quando quattro donne mi tennero stretta e mi tagliarono il clitoride. Ho sentito ogni taglio. Urlavo talmente forte che svenni». Leyla Hussein è nata in Somalia 38 anni fa, nel grembo di una famiglia istruita e benestante. Il racconto è struggente e il ricordo di quel giorno sarà sempre crudo, come i traumi che si porta dentro. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono oltre 200 milioni le donne e le ragazze in tutto il mondo che hanno subito l’antica pratica della mutilazione genitale, di cui quasi un quarto bambine sotto i 14 anni.
Oggi è considerata una violazione dei diritti umani, in particolare del principio fondamentale relativo all’integrità e alla salute della persona. Quest’antica pratica rimane più diffusa in Africa, nella penisola araba e nel sud-est asiatico. In particolare, la percentuale più alta di donne che hanno subito mutilazioni genitali si trova oggi in Somalia (98%) ma anche in Guinea (97%) e Gibuti (93%). Tuttavia, le vittime di questo cruento rito sono più vicine a noi di quanto pensiamo. Con l’ondata migratoria, in Europa si contano attualmente 500 mila vittime all’incirca, mentre in Italia le donne che hanno subito mutilazioni sarebbero tra le 60 e 80 mila all’incirca.
Le origini della pratica delle mutilazioni genitali femminili risalgono al momento in cui il tempo della storia si intreccia con quello della leggenda. Si tratta principalmente di un rituale simbolo legato all’appartenenza alla comunità, una cerimonia di iniziazione che rispecchia codici sociali ben radicati e che, proprio per questo motivo, risulta difficilissimo contrastare. Le misure legislative non sono quindi sufficienti a sradicare quest’antica pratica in quanto è indispensabile che si verifichi una progressiva evoluzione di credenze e tradizioni profondamente consolidate.
La Guinea è stato il primo Paese al mondo, nell’ormai lontano 1965, ad approvare una legge per combattere il fenomeno. In Italia l’infibulazione è un reato e, secondo la normativa che regola la prevenzione e il divieto di queste pratiche, la legge 9 gennaio 2006, è punibile con la reclusione da 4 a 12 anni. Se a decidere il destino di una figlia fosse un genitore, sarà negato l’esercizio della responsabilità genitoriale proprio a quel padre o quella madre che ha intrapreso tale decisione. Il 6 febbraio è stata istituita, dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, la Giornata Mondiale
“della Tolleranza Zero nei confronti delle mutilazioni genitali femminili”.
L’Unione Europea stessa ha attuato da anni molte campagne di informazione e prevenzione, iniziative semplici ma essenziali per tenere acceso un riflettore sul fenomeno e dare un contributo ad un vero e proprio cambiamento culturale. Diversi anni più tardi, Leyla Hussein emigrò nel Regno Unito e divenne psicoterapeuta e attivista per i diritti delle donne. Attualmente è una figura di spicco che combatte la battaglia delle pratiche MGF e nel frattempo ha fondato l’associazione “Dahila Project” ed è cofondatrice di “Daughters of Eve”, organizzazione no profit che si occupa di donne e ragazze a rischio di pratiche MGF.
Pochi giorni fa Leyla e altri attivisti hanno assunto lo stesso hashtag del movimento contro le molestie sessuali, #metoo, per estendere la denuncia delle violenze anche a quest’atroce pratica delle mutilazioni genitali femminili, in quest’ultimo caso praticata esclusivamente da donne. Perchè sempre di una violenza si tratta, in ogni caso. Ogni volta che Leyla racconta la sua esperienza da bambina, la voce ad un certo punto si sbriciola e le parole sfumano. È come se ogni volta rivivesse l’agghiacciante tortura subita. Cosa la spinge a portare avanti la sua battaglia contro questa violenza? La sua fede. In Allah. Sì, Leyla è musulmana e forse per qualcuno potrebbe essere una notizia, ma le
mutilazioni genitali femminili con le religioni non hanno nulla a che vedere.
AdrenAlina – ilmegafono.org
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