Fake news, real news, per qualcuno è importante solo conteggiare. Quanti sono i like, quante le condivisioni, quanti i commenti generati da notizie più o meno veritiere pubblicate online. È questo il dilemma dei nostri tempi. E a pensar male si fa presto. Tuttavia l’ultima polemica, puramente elettorale, tra il PD e il Movimento 5 Stelle, partita da una prima inchiesta pubblicata da Buzzfeed e successivamente ripresa da un approfondimento del New York Times, rischia di lasciare il tempo che trova.
Per fare una breve sintesi, Alberto Nardelli e Craig Silverman svelano un complicato ghirigoro di siti (175 domini web, di cui i più rilevanti a livello di numeri raggiunti sarebbero DirettaNews e Inews24) e pagine Facebook che fanno capo ad un certo imprenditore romano, Giancarlo Colono, il quale, tramite la società Web365, che gestisce questa rete, controllerebbe un’importante fetta di traffico online legato alla diffusione di notizie false in grado di influenzare l’opinione pubblica.
Poco dopo, da Roma, Jason Horowitz del New York Times riprende l’inchiesta di Buzzfeed e cita un report di Ghost Data, la società di Andrea Stroppa, consulente di Matteo Renzi sul tema della cybersecurity, da cui emergerebbe il diretto coinvolgimento di presunti attivisti di Lega Nord e Movimento 5 Stelle nell’attività online di alcuni siti di fake news (non riportiamo le reazioni dei protagonisti coinvolti in quanto sono facilmente rintracciabili e poco interessanti, anche perché le posizioni di tutte le parti sono ben note, oltre che facilmente prevedibili).
Le fake news sono un tema vecchio come il mondo. La differenza è che, nell’era digitale, la diffusione è molto più veloce e l’impatto molto più immediato. Molte realtà se ne stanno occupando da tempo per combattere il fenomeno, ma teniamo anche presente l’effimera natura delle performance relative ai risultati che si ottengono online in termini di visualizzazioni o condivisioni. I followers si possono acquistare a blocchi di centinaia o miglialia, le visualizzazioni non sono indicative di quanti hanno effettivamente visualizzato e processato il contenuto pubblicato. Si va solo a caccia di click.
Ma d’altronde nell’epoca dei Big Data, si sa, ci nutriamo di soli numeri, e la data analysis è la nuova religione. Non s’illudano però i leader nostrani che a far pendere dalla propria parte l’ago della bilancia nelle prossime elezioni siano il numero di condivisioni proliferato dalle bufale messe in circolazione sui social network. Analizzando bene lo stato attuale della situazione, forse c’è qualche dettaglio che sfugge clamorosamente all’attenzione dei nostri esperti di comunicazione politica (i politici erano un’altra cosa).
Punto uno. È noto che l’Italia non spicca nelle classifiche per il tasso di alfabetizzazione digitale e il dato più aggiornato che emerge chiaramente dall’ultimo report della Commissione Europea, relativo all’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società (leggi qui), non apporta cambiamenti. Anche se l’unico dato positivo è quello relativo all’uso delle tecnologie digitali da parte delle imprese e l’erogazione di servizi pubblici online (e in questo senso pare che l’Italia si avvicini alla media europea), le competenze digitali degli utenti rimangono basse, mentre “le attività online effettuate dagli internauti italiani sono molto inferiori alla media dell’UE”.
Tra i vari indicatori analizzati (connettività, capitale umano, uso di internet, integrazione delle tecnologie digitali e servizi pubblici digitali) ci aggiudichiamo la quartultima posizione in classifica (su 28 Paesi). Peggio di noi solo Cipro, Romania e Bulgaria. Grosso modo, solo 4 italiani su 10 possiedono competenze digitali base (il 44%). E questa è una bruttissima notizia.
Punto due. È altrettanto noto (forse anche come conseguenza del punto uno) che la principale fonte d’informazione in Italia restano i media tradizionali (giornali ma soprattutto tv). Come non considerare, sempre rimanendo sui numeri che tanto piacciono, specie quando si parla di politica, gli share raggiunti da certe presunte trasmissioni informative o pseudoinformative che dell’approfondimento politico ne fanno una bandiera? La qualità del servizio informativo e di approfondimento, ad esempio, delle reti Mediaset, è inversamente proporzionale gli indici di ascolto e, troppo spesso, esse raggiungono il primato assoluto in questo senso. Purtroppo anche dalla parte della concorrenza non ci sono molte alternative.
Facciamocela, allora, una domanda. La questione delle bufale online è importante e non va ignorata (gli episodi che, ad esempio, hanno visto coinvolti personaggi come Maria Elena Boschi e Laura Boldrini sono gravissimi), ma economia, lavoro e disoccupazione sono la prerogativa degli ultimi dieci, quindici anni. Sviare l‘attenzione dai reali problemi di questo Paese è diventato per molti un simpatico ed ingegnoso passatempo, forse anche redditizio, ma non si pensi che le elezioni si vincono a colpi di “clickbait”.
AdrenAlina -ilmegafono.org
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