Dodici. Come i mesi di un anno. O come il numero di denunce che una donna, stanca di subire violenze, sporge contro il marito. I mesi, però, sono solo frazioni cicliche di tempo che salutano quel che è passato e poi ricominciano. Le denunce, invece, se non vengono ascoltate, sono fratture fatali tra la possibilità di giustizia e la fine di tutto. Marianna Manduca quelle denunce le ha viste evaporare ogni volta, come se il suo coraggio stanco fosse ghiaccio sul davanzale di una finestra in un giorno di sole estivo. Non l’hanno mai veramente creduta, non hanno mai compreso il dolore e la sua disperata richiesta di aiuto.

Dodici volte. Dodici verbali, dodici firme, dodici colloqui nei quali ha dovuto raccontare quel che aveva subito. E ci sarebbe stata anche la tredicesima volta, probabilmente, perché Marianna sperava ancora. Sperava ogni volta di ottenere quell’aiuto che avrebbe potuto salvarla. E invece quel numero, dodici, è rimasto lì, fermo tra i fascicoli dei pm, perché Marianna è stata uccisa. Pugnalata, così come lei temeva quando si era rivolta alla procura di Caltagirone: “Mi ha minacciata con un coltello, non so più che devo fare: aiutatemi”. Adesso quei magistrati sono stati condannati e lo Stato dovrà risarcire i tre figli rimasti senza mamma.

Un traguardo importante, ma amaro. Perché resta il fatto che Marianna non c’è più e si sarebbe potuta salvare. Come si sarebbero potute salvare tante altre donne, uccise nonostante le denunce, nonostante i loro omicidi fossero stati ampiamente annunciati. Storie di un’Italia che ancora non aveva una legge sullo stalking, ma anche storie successive di uno Stato che quella legge ce l’aveva e non l’ha applicata come avrebbe dovuto.

Viene in mente la vicenda di Sabrina Blotti, raccontata molto bene da Riccardo Iacona nel suo libro “Se questi sono gli uomini” (2012, Edizioni Chiarelettere). Sabrina fu uccisa a Cesena il 31 maggio del 2012. Aveva 45 anni, era separata e madre di due figli. A spararle, in mezzo alla strada, alle 8.30 del mattino, un uomo con cui aveva avuto una breve relazione. Un uomo che la tormentava e che lei aveva denunciato quando le sue minacce erano diventate promesse di morte certa. I carabinieri sapevano, la procura sapeva.

Il piano del killer, Gaetano Delle Foglie, che si è poi suicidato dopo essersi asserragliato per ore dentro il duomo di Cervia, era noto a tutti. C’era persino la denuncia di un medico, una dottoressa, che aveva in cura l’uomo e che da lui aveva appreso l’intenzione di uccidere Sabrina. Nessuno fermò quell’uomo, nessuno mai lo interrogò, la vigilanza su Sabrina fu sporadica e non sufficiente. La Procura non prefigurò il reato di stalking, ma quello di ingiurie e minacce gravi. Una scelta che impedì di attivare tutta una serie di azioni a tutela della donna. Così come accaduto a Marianna, nel cui caso le violenze da lei denunciate vennero considerate liti familiari.

Ecco perché queste storie, che non sono affatto isolate, sono casi di femminicidio di Stato. Proprio così. Perché lo Stato ha giocato un ruolo decisivo, è stato il complice migliore di questi mezzi uomini, li ha lasciati fare, rendendo il bersaglio ancora più facile da colpire, ancora più disperatamente fragile. Se non fosse stato per il cugino di Marianna Manduca, che ha voluto capire come fosse stato possibile ignorare dodici denunce, questa triste vicenda sarebbe finita nell’oblio generale, come tante altre.

Carmelo Calì, questo il nome del cugino, che ha subito preso in affido e poi adottato i tre figli della vittima, voleva giustizia e la sua battaglia legale, lunga, estenuante, ha finalmente punito anche la complice negligenza della procura di Caltagirone. Un’azione di risarcimento che ha avuto successo e che potrebbe rappresentare un precedente anche per i familiari di altre donne vittime dell’inerzia colpevole delle istituzioni chiamate a tutelare l’incolumità delle donne che denunciano. Tuttavia, questa non è comunque una vittoria, perché quelle morti non si possono cancellare.

La sola vera vittoria sarebbe uno Stato veramente determinato a investire in strumenti e strutture di protezione delle donne vittime di violenza, creare e potenziare canali di assistenza immediata (legale, psicologica, sociale, familiare), rafforzare i centri anti-violenza, attivare seri programmi di educazione e informazione nelle scuole, garantire soprattutto la legge, fermando preventivamente chi minaccia, molesta, compie violenza fisica o psicologica e azioni persecutorie nei confronti delle donne. La legge sullo stalking va applicata. Soprattutto va restituito buon senso alle istituzioni, perché ignorare dodici denunce è criminale quanto l’assassinio che quelle denunce volevano evitare.

Il problema è che, al di là delle parole di circostanza e degli annunci, il tema della violenza di genere e del femminicidio in Italia, al di fuori dei momenti nei quali purtroppo c’è la notizia, continua a non essere centrale nell’agenda dei governi. Così, mentre si dà spazio quotidiano alla retorica sulla sicurezza, nel nostro Paese la violenza sulle donne supera la media delle cento vittime all’anno. Molte più del terrorismo. Eppure se ne parla molto meno. Evidentemente è un tema che politicamente ha meno appeal perché, in una società e in una politica profondamente maschiliste come le nostre, produce molto meno consenso.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org