Per chi viene da una terra in cui il sangue di uomini e donne, che hanno sacrificato la loro vita per combattere il potere mafioso, è ancora visibile e attraversa le strade, le piazze, i luoghi della memoria, è davvero strano vedere nel centro di Milano due auto di scorta con dentro cinque agenti per proteggere Vittorio Sgarbi. Ti chiedi quale sia la logica di un tale spiegamento di forze. Chi è costui? Ha forse fatto qualcosa per abbattere il sistema mafioso? È un magistrato antimafia o antiterrorismo? Un testimone o un collaboratore di giustizia? Un giornalista o un commerciante che ha denunciato il crimine organizzato? Niente di tutto ciò. Non è altro che un saltimbanco, un giullare dello spettacolo prestato alla politica, uno di quei tanti personaggi partoriti dalle tv di Berlusconi. E ha la scorta. Così come ce l’ha Emilio Fede, il quale è così sfacciato e privo di vergogna che in certi suoi deliri televisivi attacca Saviano, “colpevole” di sottolineare il suo vivere blindato. Sì perché Fede sostiene che anch’egli ha il suo bel carico di minacce, ma non se ne lamenta, non usa questa “scusa” per andare in tv.

Certo, perché infatti il fido Emilio vive recluso, senza contatti con il mondo: lo dimostrano gli ultimi fatti. Le orge a casa del premier erano in realtà un diversivo per confondere chi attenta alla vita del coraggioso giornalista (fa impressione definirlo tale) e direttore del tg4. Scorte, uomini impegnati a seguire passo per passo gente che di protezione non avrebbe bisogno e per la quale ciò rappresenta solo un fattore di status. Vedi Sgarbi dentro un’auto blu, seguita dietro da un’altra con il lampeggiante acceso, che sfreccia nella centralissima via Torino a Milano, proprio nel giorno in cui vieni a sapere che il ministero dell’Interno ha deciso di revocare la scorta a Giulio Cavalli. Evidentemente, secondo il Viminale, non esistono più le condizioni di pericolo per cui al regista ed attore teatrale, che sul palco sfida e deride la mafia, nel 2009, venne assegnata la tutela.

Questa decisione arriva a circa un anno dall’ultimo avvertimento mafioso: nel 2010, durante la campagna elettorale per le regionali in Lombardia, a cui Giulio si è candidato risultando eletto tra le fila dell’Idv, 23 proiettili vengono fatti trovare dinnanzi al teatro Oscar di Milano, dove l’attore è di scena con un suo spettacolo. Inspiegabile e sospetta, la scelta del ministero di Maroni assume i contorni opachi di una questione politica, legata all’impegno di Cavalli nell’assemblea regionale lombarda, alle sue denunce sulle infiltrazioni nel sistema sanitario regionale, al suo continuo svelare i rapporti tra ‘ndrangheta e amministrazioni locali. Ricordate cosa avvenne quando Saviano, nel corso di “Vieni via con me”, parlò di inevitabili intrecci tra criminalità organizzata e Lega? Ricordate la reazione di Maroni? Chissà se questa decisione è un modo per punire Giulio, che di queste denunce ne ha fatte a centinaia nei suoi testi teatrali e anche nel corso della sua breve attività politica.

Lui, come suo solito, tiene un profilo basso, preferisce non far polemica, pubblica sul suo sito un comunicato stampa in cui conferma la scelta del ministero di revocare la tutela, ma invita tutti a “non strumentalizzare o amplificare la notizia” per rispetto suo e della sua famiglia “che ha già pagato troppo”. Ho conosciuto Giulio l’anno scorso, a Palazzolo Acreide (Sr), in occasione del premio dedicato a Pippo Fava (a lui venne assegnato il premio Giovani), al termine di una versione ridotta del suo spettacolo “A cento passi dal Duomo”. Lo intervistai per il Megafono e mi colpì la sua assoluta compostezza, la calma con cui diceva certe cose, la rapidità con cui glissava la questione della sua scorta e della sua sicurezza personale. Ora ritrovo quello stesso stile nel suo comunicato, in quelle parole che non lasciano spazio a repliche, ma che non riescono a fermare l’indignazione nei confronti di uno Stato che, ancora una volta, sceglie di non proteggere chi opera per la legalità e per la giustizia, chi ha decide di alzare la voce.

È successo già altre volte, come nel caso di Pino Masciari o Piera Aiello, continua ad accadere ancora. “Ho un grande rispetto – scrive Giulio – per le istituzioni e per le molte persone che con me (e come me) sono in questa nostra grande battaglia, per questo credo che incagliarsi su questo particolare sia irrispettoso nei confronti dei molti che in prima linea rischiano quotidianamente la propria incolumità: penso ai testimoni di giustizia, ai magistrati, ai cronisti al fronte e a tutti gli uomini di parola (che mi onoro di avere tra i miei amici) e che ho visto troppo spesso dover elemosinare protezione per sé e per le loro famiglie. Sono seguito professionalmente e umanamente dalle forze dell’ordine che mi garantiscono di poter svolgere il mio lavoro e che sono certo non smetteranno di essere presenti insieme a chi ha preso questa decisione con grande senso di equilibrio e soprattutto responsabilità”.

Non molla Giulio, ma non vuole nemmeno soffiare sul fuoco. Sceglie come sempre di andare avanti, fiducioso, consapevole di non poter e non voler far altro che raccontare, denunciare, lavorare. Il suo invito va compreso ed accolto, però non si può non mettere davanti  alle proprie responsabilità chi, ancora una volta, mostra di saper solo sbandierare e propagandare il proprio impegno antimafia sfruttando il lavoro degli altri, per poi andare in direzione opposta quando si tratta di agire concretamente nei settori di propria competenza. È facile prendersi meriti che non si hanno quando magistrati e forze dell’ordine arrestano latitanti o sgominano clan. È molto più difficile compiere gesti concreti ed efficaci per contrastare la mafia. E questo governo alla mafia fa solo il solletico. Anzi, quando prende decisioni come queste, si permette pure di farle un favore.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org