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I microfoni sono aperti, i sospettati si difendono, gli amici prendono le distanze, i furbi tacciono, qualcuno maledice una foto, altri si impegnano a mostrarsi stupiti, dopo albe trascorse davanti allo specchio a cercare la smorfia più credibile. Tutti, ma proprio tutti, sembrano impacciati nel celare la speranza che la burrasca passi in fretta, perché se malauguratamente dovesse estendersi, se la legge dovesse irrompere con ancora più forza in questo momento di disordine e fatica, allora potrebbe materializzarsi la più grande umiliazione. No, non le manette o la forca mediatica, ché a quelle ci si fa l’abitudine e basta avere pazienza per metterle da parte e rifarsi una verginità; ciò che li spaventa e umilia di più, invece, è l’essere costretti ad ammettere che avevamo ragione noi, cioè quelli un tempo condannati ad aver torto. Ce lo hanno ripetuto sempre, con il sorrisetto arrogante, con gli avvertimenti più o meno celati, con uno sguardo compassionevole che accompagnava l’accusa di avere le visioni, di essere ideologizzati, avere i paraocchi ed essere presuntuosi. Ognuno di noi nel proprio campo.
Decine, centinaia di persone che, nella propria professione o nel proprio impegno civile e sociale, si assomigliavano, finendo, nonostante le diverse attitudini, personalità, esperienze, per ritrovarsi nell’unica categoria marchiata con un cartellino sul quale campeggia la scritta “quelli che hanno torto”. I furbi, i sospettati, i sorpresi, coloro che imprecano adesso hanno il terrore di non riuscire più a mantenere questo concetto, a dimostrare che non è possibile che essi non abbiano sempre ragione. Anche se pubblicamente si schermiscono, intimamente provano fastidio e soprattutto hanno paura di noi, di quelli che non hanno mollato di un centimetro, urlando, scrivendo, manifestando, denunciando. Noi, quelli che, ciascuno con il suo contributo, si sono guadagnati gli appellativi più vari, tra cui primeggia quello di “rompicoglioni”. Quelli che a Roma avevano scritto pagine su pagine sul malaffare, sull’eversione collegata alla mafia, sulla banda della Magliana.
Giornalisti, attivisti, associazioni, cittadini che sapevano e denunciavano, davanti all’assonnata coscienza della Capitale e del resto del Paese. Quelli che non si fidavano dell’improvviso scoppio di tumulti razzisti dentro le periferie, popolate in pochi giorni da teste rasate, croci celtiche, slogan ignobili, esclusivamente per creare il caos e, con un pretesto e qualche bugia, costruirsi una strada di consenso tra le masse abbrutite e fameliche. Ci hanno detto che eravamo bugiardi, in questi anni. Lo hanno detto a noi, quando scrivevamo che i centri di accoglienza erano lager (e lo sono ancora) gestiti da speculatori e affaristi nostrani, che si arricchivano sulla pelle degli ultimi. Ci hanno attaccato, insultato, “avvisato” con ogni mezzo quando abbiamo detto per anni che, ad esempio, il Cara di Cassibile, a Siracusa, lucrava sul dolore dei migranti, attuando un sistema delinquenziale che, miracolosamente (?), si è salvato dalla mezza dozzina di imputazioni che la magistratura ha contestato in aula: prove inutilizzabili per la mancata richiesta di proroga delle indagini.
Una manna dal cielo per chi, chiuso quel centro dopo un’interrogazione parlamentare, si è spostato altrove, ripetendo la stessa vergogna, nel nord Sicilia come in Emilia-Romagna, dove le condizioni estreme di vita dei migranti e il mancato pagamento di operatori e lavoratori, hanno determinato altre chiusure. Eppure avevano ragione loro e torto noi, se è vero che l’ostinazione di chi guadagna con il dolore dei migranti consente di partecipare ai bandi di gara per l’assegnazione di altre strutture. Avevano ragione loro e non noi, non chi manifestava davanti a Mineo, sostenendo che il centro, che molti miei colleghi scrivevano essere una sorta di hotel a 5 stelle dove i migranti giocavano a palla e sorridevano, fosse in realtà prigione per chi da mesi e anni vive rinchiuso lì dentro senza una risposta, senza un verdetto a cui appendere il proprio futuro. Mineo, proprio la struttura finita dentro il sistema di Mafia Capitale.
Chissà se adesso lo chiuderanno, se annulleranno gli appalti di gestione. Chissà se questo governo di ingenui, dove un ministro se ne va a cena e chiacchiera con un ex assassino, condannato in via definitiva per omicidio, nonché braccio destro di un terrorista di destra ed esponente della banda della Magliana, farà qualcosa di concreto per rendere realmente accoglienti questi centri e per tagliare le gambe e le risorse a speculatori e delinquenti. Chissà se finalmente sarà permesso a volontari, giornalisti e associazioni no profit e non governative di entrare stabilmente, tutti i giorni, senza preavviso, nei centri per controllare e verificare quel che accade. Chissà se finalmente si darà un bel calcione sulle terga di cooperative varie, imprese di pulizia o di vigilanza e quant’altro che, impropriamente e senza competenze né professionalità, si trovano a gestire esseri umani con diritti, bisogni, sofferenze e dolori fisici e psicologici terribili.
Ci spero ma non ci credo neanche un po’. Perché per loro sarebbe come ammettere che avevamo ragione. Sarebbe un pericoloso cedimento di fronte a chi guarda più avanti di chi governa, a chi non antepone le dinamiche di potere e la superbia della politica agli interessi dei cittadini, degli esseri umani, della loro salute e della loro dignità. Sarebbe un precedente che potrebbe valere anche in altri ambiti, compreso quello ambientale, sul quale si stanno giocando interessi imbarazzanti. Perché chi da tempo lotta per avvertire degli effetti disastrosi della TAV o dell’edilizia selvaggia o delle folli idee dello Sblocca Italia, chi prova a difendersi dalla portata ambientale e soprattutto militare del MUOS, potrebbe trovare altra forza, altro coraggio. Non bisogna fare assist a quei diecimila in piazza a Potenza contro le trivellazioni che ribadiscono che anche lì, come a Roma, si stanno facendo gli interessi di furbi, corrotti e potenti.
Già si è dovuto far fronte, con non pochi imbarazzi, alle catastrofi delle alluvioni, cercando di smorzare la rabbia di quei “rompicoglioni” che da decenni protestano contro la distruzione, per via industriale ed edilizia, dell’ambiente e del territorio. No, non bisogna cedere. Cambiare registro adesso rischierebbe di esaltare chi si oppone, sollecitare la magistratura ad approfondire ulteriormente e questo creerebbe problemi alla governabilità del Paese e alla sonnambula coscienza civile, il cui risveglio potrebbe essere pericoloso.
Quindi avanti tutta con gli annunci, le dichiarazioni, la guerra all’articolo 18 e ai lavoratori, la fiducia ad Alfano come ministro dell’Interno, il silenzio assoluto sulla mafia, l’assalto ai territori e alle loro bellezze. Perché l’Italia ha bisogno di investimenti e gli investitori hanno bisogno di una strada dritta che la politica deve liberare dagli ostacoli. Davanti a chi si oppone, indicando la direzione del buon senso, basta sorridere con sufficienza, fare una battuta, ripetergli ossessivamente che “hanno torto”. E che la ragione sta sempre con il più forte. O con il più arrogante.
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