Era già accaduto tanti anni fa, quando molti dei ragazzotti che ora giocano alla caccia al nero non erano nemmeno nati. Era accaduto in Campania, a Villa Literno, sempre in territorio casertano, a due passi da Castel Volturno, il 25 agosto 1989, quando il rifugiato politico sudafricano Jerry Essan Masslo veniva ucciso nel corso di un’aggressione da parte di un gruppo di balordi che avevano deciso di rapinare alcuni lavoratori immigrati, impiegati come braccianti nelle campagne della zona. Non è stata l’ultima volta, ce ne sono state altre. Dall’incendio del ghetto di Literno, nel 1994, a quello dei campi di Cassibile, nel 2006, fino alle violenze di Rosarno. Storie di pestaggi, ferimenti, aggressioni a mano armata, atti di razzismo e di violenza gratuita, incendi degli accampamenti di fortuna scelti dai migranti, umiliazioni. E poi c’è stato anche altro, qualcosa di ancor più atroce: la strage degli innocenti, il fuoco dei casalesi su sei ragazzi ghanesi scelti a caso, uccisi solo per far capire chi comandava in paese.

Insieme a tutto ciò ci sono le condizioni dei braccianti  immigrati nelle campagne di mezza Italia, che continuano a essere pressoché identiche a prima delle inchieste giornalistiche di Fabrizio Gatti a Foggia o del caso mediatico di Rosarno. Non è cambiato nulla, perché nullo è stato l’impegno dei governi che si sono succeduti negli anni. Nulla è stata la proposta di soluzioni che potessero spezzare lo sfruttamento e imporre il rispetto dei diritti umani, costruire l’integrazione, eliminare la logica del ghetto che, nella storia del mondo, non ha mai prodotto alcunché di buono.

L’Italia continua a lamentarsi con l’Europa, come se la costruzione di solidarietà sociale e di occasioni di convivenza e conoscenza fosse qualcosa che possiamo delegare all’esterno delle nostre responsabilità. Non si riesce a predisporre una strategia chiara, con coraggio, ignorando la grettezza e la malafede della Lega, scegliendo di fare la cosa giusta, senza lasciarsi guidare dal consenso popolare. La politica dovrebbe far questo, riuscire ad elevare lo spirito immondo di un popolo in declino e tracciare una strada futura che metta al centro l’umanità. Tutto il contrario di quel che avviene in Italia.

Così, a Castel Volturno (ancora lì), dove il dolore è di casa; dove c’è ancora l’impronta del sangue innocente di sei ragazzi finiti per terra senza una colpa; dove le associazioni e le organizzazioni umanitarie provano a creare solidarietà lavorando dentro quel vuoto nel quale si misura la latitanza delle istituzioni, accade che si trovino di nuovo di fronte neri contro bianchi. La rivolta del 2008 era stata una reazione emotiva alla strage, a cui si sommavano anni di umiliazioni, di abbandono, di soprusi; quella di qualche giorno fa, è stata la rivolta a una famiglia della frazione di Pescopagano, i Cipriano, vigilantes privati protagonisti di un agguato, in pieno stile camorristico. Due giovani ivoriani sono stati feriti a colpi di arma da fuoco da due membri di questa famiglia, padre e figlio, e sono finiti in ospedale. Le ragioni non sono troppo chiare, pare che sia nato tutto da un litigio, nel quale uno solo dei due ivoriani era coinvolto. Quello che è certo è che i colpi di pistola non sono legittima difesa, bensì il risultato di una spedizione punitiva, l’ennesimo tiro al bersaglio, verso il bersaglio che appare più debole e incapace di reagire.

Solo che non è così, perché i migranti hanno imparato a reagire da tempo, sono stanchi, sfiniti. Lavorano, vengono sfruttati, tenuti in sospeso dalle questure per permessi che sembrano non arrivare mai, in una burocrazia che fa più male dei proiettili. Vivono in mezzo all’isolamento di comunità che li guardano con diffidenza, li tengono lontani, quando va bene, oppure li pestano, li deridono, li umiliano. Sia chiaro, non si nega che tra i migranti, come in tutto il genere umano, soprattutto quando si è costretti a vivere in condizioni pessime, vi siano anche delinquenti, spacciatori o ladri, così come non si giustificano i danneggiamenti o gli atti di vandalismo che alcuni di loro hanno compiuto per protesta. Però, che gli abitanti di Castel Volturno vengano a raccontarci la storia della paura e scendano in piazza contro i “neri”, lamentando il degrado del litorale domizio, come se fosse legato a loro, è quantomeno curioso.

Ci saranno quelli in buonafede, che però rischiano di essere intrappolati in una guerra tra poveri, insensata e stupida come tutte le guerre. Ma ci sono anche quelli che per anni non hanno avuto problemi a lasciarsi bastonare sulla dignità dagli Schiavone, dai Setola o dai Bardellino di turno, dai clan che hanno devastato il loro territorio con il loro complice silenzio o con la loro aperta connivenza. Non si sono mai alzati in piedi, non sono mai scesi in piazza a protestare, non si sono mai lamentati dell’insicurezza del loro paese, nemmeno quando a Castel Volturno scorreva il sangue, come nella strage di Pescopagano del 1990, con cinque morti in un bar della zona, o appunto nel 2008, con l’eccidio dei sei migranti. Non hanno detto una parola, non hanno battuto ciglio mentre il litorale veniva smembrato, distrutto, rovinato, smarrendo tutta la sua originaria bellezza. Hanno accettato l’inferno, perché i diavoli erano locali e potevano uccidere quando volevano. 

I migranti, invece, hanno dimostrato di non aver paura, di saper reagire, di protestare apertamente in una zona in cui nessuno può osare alzare la schiena e lo sguardo senza incontrare gli occhi di chi comanda. Hanno esagerato nella rabbia, forse, ma hanno dimostrato di essere più coraggiosi, arrivando a incendiare alcuni immobili di proprietà dei Cipriano, cioè di coloro che hanno sparato ai due ragazzi. Li hanno attaccati, sfidati apertamente. Forse è questo che dà fastidio ai cittadini locali, forse è questa differenza che si trovano sbattuta in faccia a irritarli. Forse, se avessero scelto di scendere in piazza insieme a loro subito dopo il ferimento dei due ragazzi ivoriani, la città non sarebbe stata sconvolta e la protesta avrebbe avuto un impatto meno duro. Il problema è che nessuno ha avuto il coraggio di ringhiare in faccia a quei pistoleri che hanno agito come due camorristi, tornando sul posto a regolare, con le pistole, un precedente “affronto”.

Solo il sindaco, Dimitri Russo, ha mostrato saggezza, chiedendo che si conceda il permesso di soggiorno ai lavoratori irregolari sfruttati e che si investa sull’integrazione. Perché il problema vero è che a Castel Volturno, dove lo Stato è latitante, ci sono vittime remissive che danno la colpa ad altre vittime che sono tali senza la loro volontà e che dunque reagiscono, non si rassegnano. In tutto questo, i veri colpevoli, ossia quelli che sparano e pensano di poter comandare con il terrore, finiscono per ottenere solidarietà e per eclissare la loro crudeltà dietro il capro espiatorio rappresentato dal “nero”, dall’estraneo, dall’ospite indesiderato. Perché è così che un altro colpevole, lo Stato nel suo insieme, fa sentire i migranti. E fino a quando sarà così, di Castel Volturno, di varie dimensioni e livelli, ce ne saranno ancora tante. E ci saranno violenza e sopraffazione, reazioni rabbiose a cui seguiranno altre reazioni, basate sulla logica del linciaggio e cariche di elementi razzisti.

Purtroppo ci sarà pure un Alfano qualsiasi che si schiererà sempre dalla parte dei colpevoli, degli ipocriti e dei mezzi uomini che ora chiedono di essere aiutati e liberati dalla presenza degli “stranieri”, dalla “invasione”. E ci sarà anche un Renzi qualsiasi che lo lascerà fare e che, al massimo, dirà agli europei allibiti che la colpa è tutta loro, come se la Bossi-Fini l’avessero fatta in Germania o in Svezia. Come se l’ignoranza e l’intolleranza le avessimo importate. Un po’ come fanno i cittadini di Castel Volturno che pensano che a deturpare il litorale domizio siano stati i migranti e non gli affari sporchi e velenosi dei clan contro cui nessuno di loro ha pronunciato una sola dannata parola di condanna. D’altra parte, si sa, la politica è sempre lo specchio del paese.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org