Un argomento sempre più importante all’interno del dibattito economico e politico italiano è quello delle piccole e medie imprese, spesso denominate con l’acronimo PMI. Nel nostro Paese circa l’ottanta percento dei dipendenti del settore privato sono occupati in imprese con meno di 250 dipendenti e con meno di 50 milioni di euro di fatturato annuo; di questi, circa undici milioni lavorano in micro imprese (con meno di 20 dipendenti). Esse sono di fondamentale importanza all’interno di un panorama economico frastagliato come il nostro, dove l’economia locale è ancora forte e dove il 99% delle attività private sono costituite sotto questa forma. Quando si parla di piccola e media impresa si parla di tante piccole realtà come la start-up innovativa basata su un’idea partorita da neolaureati, ma anche la ricevitoria che abbiamo sotto casa, l’artigiano o la piccola industria locale.
Perché sono cosi importanti? Innanzitutto, c’è da dire che qualsiasi impresa, prima di divenire un colosso del mercato globale, ammesso che lo diventi, deve partire dal basso. Nelle piccole imprese si concentrano le nuove idee per il mercato, si valorizzano aspetti del proprio territorio con cui si è integrati e si coagulano qualità umane. La PMI è il centro nevralgico di ogni sistema economico. Se si dà un’occhiata a un rapporto come il DoingBusiness della Banca Mondiale dello scorso anno, si può però facilmente notare come il nostro Paese navighi ancora in cattive acque per quanto riguarda una riforma della materia in questione. In confronto ai nostri vicini europei, con i quali dovremmo in teoria integrarci il più possibile, vi sono ancora notevoli differenze. Ci vogliono più di sessanta giorni per aprire un’impresa (nel Regno Unito solo 4), i costi per l’apertura sono spesso dieci volte maggiori rispetto a Francia o Germania.
Anche un permesso di costruzione o una disputa legale per un credito commerciale (ordinaria amministrazione per un’impresa) vedono tempi superiori in Italia in confronto alla Spagna, per esempio. Nella classifica della competitività del sistema di credito invece siamo al 104° posto nel mondo. Cavallo di battaglia del nostro sistema economico: la tassazione. Con un Total Tax Rate del 68% (che comprende tasse sul reddito, sul lavoro e altre) siamo ultimi in Europa e nella stessa posizione dell’Algeria. Insomma, per abbreviare, in Italia è più difficile aprire un’impresa, ricevere un finanziamento e, anche una volta che l’attività è partita, bisogna superare scogliere pungenti come la tassazione e la burocrazia. Difatti non è una sorpresa che, sempre secondo la Banca Mondiale, circa un terzo degli imprenditori italiani si aspetta di dover pagare una tangente per ottenere un permesso di costruzione. Questo favorisce le mafie che, ben inserite negli apparati locali, detengono spesso il monopolio del lavoro.
Facilmente si collega anche il fenomeno dei “cervelli in fuga”, che trovano in altri paesi la possibilità di entrare nel mondo delle aziende, le quali sempre di più necessitano di sviluppo e innovazione, dunque di ricerca. Sviluppo e innovazione che in Italia non riescono a trovare la loro patria dal momento che muri istituzionali rendono difficile e costosa una procedura semplice come il registrarsi alla camera di commercio.
La stessa “Srl a 1€” messa in atto da Monti non è riuscita a superare le difficoltà sopra esposte e le lamentele non mancano. All’interno di una prospettiva più ampia, questo ovviamente è un vantaggio per le multinazionali e le grandi catene, italiane e non, che così inglobano sia le piccole attività, sia il capitale umano, per inserirlo poi in un contesto meno integrato con il territorio e anche più distante da quel che è la funzione sociale di un’impresa. Secondo una teoria del noto economista francese Pigou, una regolamentazione forte e costosa elimina i fallimenti del mercato per via del controllo pubblico. Gli ultimi studi però (Tullock e Stigler) affermano che lunghe attese, costi alti e procedure infinite sono il catalizzatore della corruzione e del favoritismo portati avanti da una parte della classe politica. Inoltre, una barriera d’entrata favorisce sempre un monopolio ingiustificato.
Dopo questa valanga di dati una domanda è lecita: l’artigianato, l’agricoltura, la ristorazione, il turismo, la moda, il design e tutti i settori che si formalizzano in piccole attività locali, in imprese famigliari o in imprese di giovani continueranno a fiorire o forse chi ha spirito d’impresa si comprerà un atlante economico e opterà per nuove terre?
Angelo Petrone –ilmegafono.org
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