Mentre l’attenzione del mondo si concentra sui fronti di guerra – dal conflitto russo-ucraino a quello palestinese-israeliano, senza dimenticare la situazione in Siria – e sulle relazioni fra Europa e Stati Uniti, mai come oggi così vicine ad un punto di rottura, Recep Tayyip Erdogan, il “Sultano di Istanbul”, regola i suoi conti personali. L’arresto di Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul e principale oppositore di Erdogan alle prossime elezioni presidenziali, segna l’ulteriore passo in avanti di un regime autoritario che punta sempre più apertamente ad un potere assoluto e tutto concentrato nelle mani di un unico “uomo forte”, una vera e propria autocrazia capace di reprimere ed eliminare ogni spazio di dissenso. Assieme ad Ekrem Imamoglu sono state arrestate un centinaio di persone: membri del Partito Repubblicano del Popolo, imprenditori, funzionari dell’amministrazione locale e un giornalista, Ismail Saymaz, politicamente vicino all’opposizione e accusato di corruzione e sostegno al terrorismo. “Mi affido alla mia nazione”, ha dichiarato İmamoglu prima di essere arrestato.
Quali sono le accuse mosse al sindaco di Istanbul? La prima è quella di “associazione a delinquere”, poi si parla di corruzione, riciclaggio di denaro, frode, turbativa d’asta e favoreggiamento del terrorismo. Quest’ultima accusa fa riferimento ai presunti legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il PKK – che Turchia, America ed Europa considerano un’organizzazione terroristica – e con il Kck, l’Unione delle Comunità del Kurdistan. È singolare la coincidenza del momento politico in cui avviene questo arresto e con queste accuse, e cioè proprio quando Abdullah Ocalan – storico leader del PKK detenuto e in isolamento da 26 anni – chiede ai militanti di “deporre le armi e sciogliere il PKK”.
Per i vertici del Partito Popolare Repubblicano – di cui lo stesso Imamoglu è uno dei dirigenti – l’arresto rappresenta un vero e proprio “tentativo di colpo di Stato”, frutto di una montatura politico-giudiziaria. Nei mesi scorsi il governo aveva già incarcerato e rimosso una decina di sindaci, eletti dai movimenti curdi in numerose città, sostituendoli con commissari vicini a Erdogan. È del tutto evidente che Imamoglu sia oggetto di una significativa attenzione giudiziaria e politica fin dal 2019, quando vinse le elezioni comunali di Istanbul sconfiggendo il candidato nazionalista di Erdogan. Il regime non riconobbe quel risultato e quelle votazioni vennero invalidate e ripetute, ma Imamoglu vinse anche il secondo scrutinio conquistando Istanbul.
Perché l’arresto? Secondo i risultati dei sondaggi, il primo cittadino di Istanbul avrebbe concrete possibilità di sconfiggere Erdogan alle prossime elezioni presidenziali del 2028 ma, per aggirare la Costituzione che impone il limite dei due mandati, il “sultano” punterebbe ad elezioni anticipate per attuare una riforma della Costituzione stessa e permettere così il terzo mandato. Per poter effettuare quella riforma è però necessario il voto favorevole dei due terzi dell’Assemblea Nazionale, una maggioranza che oggi non c’è. Delegittimare il principale oppositore politico è un sistema sempre caro ad ogni regime, e la Turchia di Erdogan è un regime che, se per molti aspetti appare in difficoltà sul piano interno, su quello internazionale prova invece a conquistare un ruolo di mediazione e collegamento fra l’Occidente e la Russia: lo ha fatto giocando su entrambi i fronti della guerra fra Russia e Ucraina, sostenendo da una parte l’integrità territoriale dell’Ucraina e dall’altra, opponendosi alle sanzioni occidentali (unico paese membro della Nato a farlo) nei confronti della Russia.
Qualcuno ricorda inoltre le pressioni, anzi il ricatto, esercitato da Erdogan su Svezia e Finlandia al momento della loro richiesta di adesione alla Nato? In cambio del voto favorevole chiedeva di non ospitare più rifugiati politici curdi e di consegnare alla Turchia decine di rifugiati considerati “terroristi”. Diverso e più intricato il rapporto con Israele, che Erdogan vede come una minaccia per la Turchia, ma che non impedisce una politica dai due volti: le critiche al governo di Tel Aviv sul genocidio di Gaza non impediscono la collaborazione per mantenere in funzione la macchina da guerra di Israele. È attraverso i porti della Turchia, infatti, che passa gran parte del fabbisogno petrolifero che dall’Azerbaigian arriva ad Israele.
Cosa succede ora in Turchia? L’attuale contesto internazionale consente al regime turco di avere a sua disposizione quel cono d’ombra di cui approfittare per chiudere l’opposizione in un angolo, stringere il cerchio intorno alla questione curda e compiere un ulteriore passo in avanti verso un potere sempre più assoluto. L’arresto di Ekrem Imamoglu ha provocato la rabbia e la reazione della popolazione, e le piazze della Turchia hanno visto, una volta ancora, la repressione brutale del regime che ha deciso di vietare cortei, sit-in e proteste di piazza, “fino alle 23.59 di martedì primo aprile”. Moltissimi gli arresti di manifestanti e giornalisti, accusati di aver documentato le proteste non autorizzate dal governo, in un vortice di repressione che mostra tutti gli aspetti di una dittatura, con il presidente turco che minaccia quelli che lui considera “terroristi di strada”: “Quando calerà il sipario – ha detto – lo spettacolo dell’opposizione prima o poi finirà e si vergogneranno del danno provocato al Paese. Questo movimento si è trasformato in violenza allo stato puro e coloro che hanno istigato questo caos, saranno chiamati a risponderne”.
Chi oggi si stupisce di quello che sta succedendo nelle strade di Istanbul, Ankara, Smirne e in ogni angolo della Turchia, dimentica o finge di non ricordare la lunga lista di dissidenti e oppositori arrestati e cancellati da Erdogan durante gli oltre vent’anni del suo potere, dimentica le migliaia di detenuti politici, gli arresti di massa e le violenze di Gezi Park, a Istanbul, nel 2013. Dimentica le violente operazioni di polizia che, nel luglio 2016, portarono all’arresto di oltre 15mila persone, tutte accusate di essere parte di una rete golpista che mirava a rovesciare Erdogan. Il regime di Recep Tayyip Erdoğan, il “Sultano di Istanbul”, è questo, nulla di più e nulla di diverso. È lo stesso regime che da sempre opprime e sopprime il popolo curdo, un popolo senza Stato e senza diritti, e che tiene in una cella di isolamento dal 1999 l’uomo simbolo della lotta di quel popolo, Abdullah Ocalan. Oggi questo regime è alla stretta finale. Per salvare sé stesso e il suo potere, Erdogan ha bisogno di ottenere in un modo o nell’altro quel terzo mandato che l’attuale Costituzione non gli consente. Ecco perché ha bisogno di elezioni anticipate e perché ha bisogno di azzerare qualunque opposizione.
Mentre le proteste continuano e vanno avanti da giorni, coinvolgendo anche le principali università, la comunità internazionale accenna a formali proteste: il ministro degli Esteri francese parla di un “serio attacco alla democrazia” e l’Unione europea chiede alla Turchia di “rispettare la democrazia”. Ma è la grande comunità turca che, a Berlino, scende in piazza con una manifestazione straordinaria. Erdogan è perfettamente consapevole di quelle che sono le carte a suo favore: la posizione geografica della Turchia, strategica e fondamentale per tutta quella zona d’ombra degli interessi occidentali in quell’area del Mediterraneo; il peso politico ed economico conquistato negli equilibri del mondo occidentale; il ruolo di partner privilegiato per molti, in modo particolare per gli USA che, grazie alla Turchia, possono contare su un alto livello di controllo del territorio mediorientale e mediterraneo.
Ma forse Erdoğan sottovaluta un aspetto che spesso scompagina le carte sul tavolo della storia: sono le giovani generazioni, le ultime. Sono quei ventenni che hanno conosciuto solo il potere del regime e che ora lo sfidano a viso aperto nelle strade e nelle piazze e, in quelle piazze, guidano la protesta. Sono loro che hanno riempito per primi le piazze di Istanbul, marciando dall’Università al Municipio. Loro, troppo giovani nel 2013 per essere massacrati di botte a Gezi Park. Il racconto di quei giorni e di quel sangue sulle strade lo hanno però ascoltato e oggi non sono più bambini, ma ragazzi diventati adulti e oppressi da un regime. Sono loro che ora chiedono “Democrazia”, una democrazia che, negli ultimi ventitré, anni è stata l’ostaggio nelle mani di un sistema sempre più autoritario. Se oggi l’Europa e il mondo conoscono la “notte della democrazia”, sono loro che possono accendere nuovamente l’alba, perché come dice una vecchia canzone “a vent’anni è tutto ancora intero”.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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