Vietato ricoprire cariche politiche e vietato lavorare. Vietato scegliere il proprio marito ed anche recarsi, da sole, fuori casa. Vietato proseguire gli studi oltre la scuola primaria e vietato praticare uno sport. Vietato mostrare il proprio volto in pubblico. E, da ultimo, vietato persino essere visibili da una finestra, da casa propria. È l’ultimo dei decreti del regime talebano – tornato al potere, in Afghanistan, nel 2021 – condiviso su X dal portavoce Zabihullah Mujahid, l’ultima di una lunga serie di vessazioni nei confronti delle donne, l’ultimo degli attacchi alla dignità ed alla libertà femminile. La visione di una donna che si affaccenda in cucina o nei pressi del pozzo o, ancora, che siede in cortile o nelle altre stanze della casa è da evitare: le istituzioni competenti, pertanto, dovranno fare in modo che le nuove costruzioni non abbiano finestre che si affaccino verso i vicini di casa e, nel caso di costruzioni già esistenti, dovranno verificare che si innalzino dei muri, ad impedire ogni visuale, ogni fastidio ai vicini. Ad impedire ogni atto “osceno”, questo l’intento sostanziale del provvedimento.

Un provvedimento – anzi, un comando, così appare scritto nell’intestazione – con tutti i crismi: un’introduzione che enuncia precedenti giurisprudenziali, quattro articoli d’un comma ciascuno, l’indicazione della pubblicazione sulla gazzetta ufficiale e, infine, la firma, preceduta da una benedizione, ed il riferimento alla Direzione generale dell’amministrazione sita a Kabul. È l’ultimo dei provvedimenti liberticidi di un Paese sempre più isolato, dalle condizioni sempre più estreme, che attua una discriminazione sistematica e legalizzata nei confronti delle donne. Bandite le ONG che impiegavano personale femminile, escluse le donne da ogni professione sanitaria (in un contesto nel quale, peraltro, nessun uomo può curare una donna), limitata qualsiasi attività dilettevole, come il canto, la recitazione di poesia, ma anche il solo parlare ad alta voce. E mentre le donne afghane che richiedono protezione internazionale continuano ad arrivare, anche in Italia, prevalentemente attraverso corridoi umanitari, di solito accompagnate dal proprio nucleo familiare, spesso con il capo velato, ma il volto scoperto e lo sguardo intenso, l’Europa mantiene un silenzio assordante.

Solo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è recentemente interrogata sulla situazione femminile afghana e sul suo lampante contrasto con i principi espressi, ormai da decenni, dalla CEDAW, la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979, e dalla più recente Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa. Principi in larga parte programmatici, che definiscono in maniera ampia il concetto di discriminazione di genere, che preconizzano una parità effettiva “quale che sia lo stato matrimoniale” delle donne o i loro rapporti familiari, che impegnano gli Stati a modificare “i modelli di comportamento socio-culturale, i pregiudizi, le pratiche consuetudinarie, i ruoli stereotipati”. Ambizioni di difficile attuazione persino nel mondo occidentale, ma mai così lontane dalla realtà afghana.

Ed è per questo che la Corte di Giustizia ha invitato gli Stati membri ad abbracciare un concetto ampio di riconoscimento – non concessione, come talvolta erroneamente si vede scritto – dello status di rifugiato in favore delle donne provenienti dall’Afghanistan: è sufficiente accertare genere e nazionalità per desumere, anche senza bisogno di un colloquio personale, che siano meritevoli di protezione internazionale, che abbiano diritto ad un titolo per risiedere in Europa, protette dal loro stesso paese d’origine. La Convenzione di Ginevra del 1951 – il testo su cui tuttora poggia l’impianto normativo, europeo e nazionale, in materia di diritto d’asilo – è chiara nel definire gli atti di persecuzione: innanzitutto, quelli che, per la loro natura, conducono ad una grave violazione dei diritti umani fondamentali; ma anche singoli atti che, considerati nel loro insieme, arrecano una analoga, grave violazione.

Quest’ultimo è il caso delle donne afghane: l’insieme delle misure discriminatorie adottate dal regime talebano nei loro confronti diventa grave, assurge a persecuzione soprattutto per l’effetto cumulativo. Non sono tanto – o soltanto – le singole misure, i singoli provvedimenti che le riguardano (che pure, specifica la Corte, possono già consistere in atti persecutori) a raggiungere un notevole livello di gravità, quanto, piuttosto, il modo deliberato e sistematico con cui il regime al potere interviene, negando “in modo flagrante e con accanimento, alle donne afghane, per il solo loro sesso, i diritti fondamentali connessi alla dignità umana”.

L’ultimo decreto, o meglio comando, è solo l’ultimo esempio di una organizzazione sociale che avalla quello che l’ONU ha definito un apartheid di genere, un contesto nel quale le donne sono escluse, segregate, nascoste, private di ogni diritto e di ogni dignità. Un contesto nel quale nascere donna, vivere da donna è più sfidante di quanto non sia stato, probabilmente, in altre epoche e in altri luoghi. Negli ultimi anni, molte radio e televisioni afghane hanno cessato di impiegare speaker donne: in Afghanistan si spengono le voci. Le speranze. E, ora, non resta nemmeno uno spicchio di cielo.

Sophie M. -ilmegafono.org