Ernesto Fazzalari, uno dei killer più spietati e sanguinari della ‘ndrangheta, condannato all’ergastolo e da nove anni al carcere duro, è stato messo ai domiciliari su decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna. Affetto da adenocarcinoma al pancreas, il Tribunale ha di fatto applicato il principio di civiltà giuridica che sancisce la prevalenza del diritto alla salute come garanzia della dignità del detenuto e dell’umanità della pena. La Corte di Cassazione, accogliendo i ricorsi del difensore, ha annullato ben tre ordinanze di rigetto del differimento della pena o della concessione della detenzione domiciliare, una emessa dal Tribunale de L’Aquila e due emesse dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna, in seguito al trasferimento di Fazzalari presso il centro diagnostico e terapeutico del carcere di Parma, dove è stato detenuto. Garantire il diritto alle cure è una questione di civiltà. Ci chiediamo, senza polemica sterile, se non sarebbe stato meglio, però, garantire tale diritto dentro una struttura detentiva adeguata.

Ma chi è Ernesto Fazzalari? Chi è, colui che, secondo quanto affermato da alcuni collaboratori di giustizia, “sparava come un pazzo”? Si tratta di un boss di primo piano della ‘ndrangheta, appartenente alla famiglia criminale dei Viola-Fazzalari-Zagari. Nel 1991, durante la faida di Taurianova, in Calabria, faida che tra il 1989 e il 1991 provocò 32 morti ammazzati, sarebbe stato lui, insieme a Marcello Viola e Pasquale Zagari, a uccidere Giuseppe Grimaldi e a tagliarne la testa con un machete, per poi usarla come bersaglio di tiro a volo nella piazza del paese. Pochi giorni dopo, fingendosi carabiniere insieme ad altri criminali, riuscì a intrufolarsi nel lutto casalingo della famiglia Grimaldi per portare a termine un’operazione culminata con l’omicidio di Roberto Grimaldi, 24 anni, e con il ferimento di Rosita Grimaldi, 14 anni.

Latitante dal 1996, è stato a lungo ricercato per traffico di droga, associazione mafiosa, traffico di armi, rapine, omicidi vari, tutti condotti brutalmente e con accanimento. Era inserito nella lista dei latitanti più pericolosi d’Europa, ricercato a livello internazionale. Arrestato nel 2016 e condannato all’ergastolo al regime carcerario previsto dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, è stato scarcerato qualche giorno fa, su richiesta dell’avvocato Antonino Napoli. La scarcerazione, così come avvenuto per il caso del boss Totò Riina, è subito diventata dibattito pubblico. Il legale ha chiesto dignità nelle cure e dignità nella morte. Giusto, per un Paese civile e democratico. Ma c’è un’ipocrisia da superare: la “morte dignitosa” non è uguale per tutti. Spesso, la si invoca a discrezione del potere di chi la chiede. Di detenuti morti in cella tra silenzio e abbandono ve ne sono tantissimi. Di giovani e vecchi che si spengono così, in silenzio, senza clamore, senza nessuno che si occupi di loro.

Appunto per questo, allora per Riina e oggi per Fazzalari, non è più una questione di pietas, di difesa dei valori umani che differenziano lo stato di diritto dalla giungla senza regole, dalla mafia. Il diritto, in questo caso, potrebbe diventare un’arma impropria del potere. Quello dei mafiosi, dei grandi mafiosi, dei capi. Il regime duro in carcere ha lo scopo di impedire comunicazioni con l’esterno. Chi ci assicura che, ai domiciliari, il boss Fazzalari non continui a comandare, a minacciare, a riorganizzare. Ricordiamo Totò Riina quando nella sua ora d’aria comunicava con il mondo, minacciava il pm Nino Di Matteo e don Ciotti? Perché permettere che un boss pericoloso possa riprendere i suoi “contatti”? Perché non assicurare dignità delle cure e accompagnamento umano alla morte in una struttura detentiva attrezzata?

Un giorno, forse, il nostro Paese sarà in grado di aprire la cella di un mafioso, di un boss al 41-bis per motivi di salute, di portarlo nel suo paese natale e mostrarlo in tutta la sua fragilità senza timore che questo susciti ancora la venerazione dei suoi “soldati”, dei suoi gregari e della zona grigia, ma al contrario sapendo che l’umanità di una grave malattia può suscitare una scala di emozioni che possono stravolgere l’immaginario mafioso: commozione, dolore, pena. Emozioni che la mafia non conosce, emozioni che potrebbero anche far vacillare i credo delle organizzazioni mafiose e il loro posticcio sistema di schifosi valori. Ma quel giorno, purtroppo, è ancora lontanissimo. Oltre al rispetto che dobbiamo alle vittime delle mafie, bisognerebbe anche guardare la realtà per quello che è: per quanto vecchi, deboli e/o malati, i boss possono continuare a fare del male, soprattutto se sono a casa propria.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org