La cifra è difficile anche solo da immaginare, 312 trilioni di dollari, ossia 312mila miliardi, pari al 328% del PIL mondiale. A tanto ammonta il debito pubblico complessivo registrato dal Global Debt Monitor dell’IIF, l’Istituto della Finanza Internazionale di Washington: nella prima metà del 2024 è cresciuto ancora rispetto agli anni precedenti. Gli aumenti più significativi arrivano da Stati Uniti e Cina, ma anche da India e Russia. In controtendenza, buona parte dell’Europa e il Giappone. Quello del debito è un tema scivoloso, spesso se ne parla limitatamente alla questione del debito estero associandolo ai Paesi del Sud globale, che hanno economie piuttosto modeste. Invece, il grosso del debito pubblico mondiale è stato accumulato dai Paesi di vecchia industrializzazione, basti pensare che i soli Stati Uniti hanno emesso un terzo di tutto il debito globale, il 15% si deve ai membri dell’UE e l’11% al Giappone. Un altro 15% è da attribuire alla Cina. Eppure, almeno secondo la stampa, i malati cronici di debito sarebbero Turchia, Argentina, Grecia, Egitto e Zimbabwe… che non pesano più del 2% sul totale del debito mondiale.
Al di là di queste “stranezze” mediatiche, quali possono essere le conseguenze della corsa all’indebitamento? Anzitutto, la quota crescente di risorse che i governi dei Paesi più indebitati devono destinare al pagamento degli interessi, che significa tagli sempre più pesanti ai servizi erogati. All’orizzonte non si vede un cambio di tendenza, si continua a far pagare ai cittadini (tra l’altro sempre più tassati) il prezzo dei cattivi investimenti e del malfunzionamento degli Stati, e in diversi casi della corruzione. Le regole di una sana contabilità, che tenga conto di quanto si incassa e quanto si spende, sono ormai estranee alla logica con la quale si emettono titoli di debito, che non sono altro che la certificazione dell’incompetenza accumulata negli anni nella gestione della cosa pubblica. Il ricorso al debito non è certo una prassi da condannare in sé, anzi, è uno strumento utilissimo se si tratta di fare investimenti produttivi, ad esempio per ammodernare infrastrutture o agevolare l’acquisto di beni immobili. Ma la logica alla base di ogni investimento è che, nel tempo, esso comporti un guadagno anche economico, che consenta di ripagare il debito.
Questa logica elementare scompare quando entra in campo la politica, che spesso considera solo l’impatto che una misura avrà in termini di consenso elettorale. Opere faraoniche ma poco utili, welfare populista, pensioni senza una base impositiva adeguata, aspirazioni da potenza militare, favori a categorie produttive o a grandi imprese “amiche”, salvataggi onerosi al sistema bancario… Il gigantesco debito pubblico odierno nasce dall’insieme di tutti questi fattori, che trasformano un semplice strumento finanziario in un cappio al collo per le future generazioni. I giovani di oggi e di domani difficilmente avranno una pensione decente alla fine della loro carriera lavorativa, per giunta dovranno ricorrere in modo crescente a servizi privati per la salute e l’istruzione. Dovranno, insomma, pagare la cattiva amministrazione della cosa pubblica e gli eccessi dei loro nonni.
La percezione comune del problema del debito pubblico ha molti punti in comune con quella del cambiamento climatico. Esiste una diffusa consapevolezza del fatto che non è una cosa buona, che bisognerebbe fare qualcosa… Ma, in fin dei conti, si può aspettare ancora un altro po’: finché qualcuno comprerà quel debito, i cui interessi vengono pagati dai cittadini sulla propria pelle, spesso senza che se ne rendano conto, la ruota continuerà a girare. È una pia illusione, come è un’illusione che si possa rimandare un serio intervento contro il riscaldamento globale, ma ci permette di dormire la notte. Perché in fondo, anche se non è vero, il problema di tutti è il problema di nessuno, il debito di tutti è il debito di nessuno.
Alfredo Luis Somoza -ilmegafono.org
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