“Mi chiamo Maysoon Majidi, sono nata il 29 luglio del 1996. Questa è la mia voce! Sono laureata in teatro e ho un diploma magistrale, sono attivista politica e membro dell’organizzazione dei diritti umani “Hana”, partecipo al coordinamento dei Curdi in diaspora, sono attivista dei diritti delle donne e delle nazioni sottomesse. Quanto ai diritti dei rifugiati, ho sempre partecipato alle varie attività come organizzare le manifestazioni dell’Onu in Erbil (Iraq) dopo la morte di Behzad Mahmoudi, rifugiato politico. Ho svolto tante altre attività. Ho partecipato alle lotte del popolo curdo per sette anni. Nel 2019 sono dovuta scappare dell’Iran”.
Maysoon è stata arrestata il 31 dicembre 2023 con la più infamante delle accuse: essere una scafista. Insieme ad altri 77 migranti era sbarcata sulle coste calabresi, nel mare di Roccella Jonica. Lei ha sempre negato e contestato questa accusa e, nel maggio scorso, ha deciso di intraprendere uno sciopero della fame per protesta. All’inizio di agosto si è svolta la prima udienza del processo contro di lei e in quell’udienza, quando il giudice ha respinto la richiesta presentata dal suo avvocato di ottenere gli arresti domiciliari, Maysoon si è rivolta direttamente al giudice per gridare la sua innocenza. Il 2 ottobre scorso, alla terza udienza del processo, il tribunale di Crotone ha respinto nuovamente la richiesta di concedere gli arresti domiciliari. Spetterà quindi al Tribunale del Riesame, il 17 ottobre prossimo, pronunciarsi in merito. Intanto Maysoon Majidi resta nel carcere di Reggio Calabria e la prossima udienza del processo è fissata per il 22 ottobre, sempre a Crotone.
Ma su cosa si basa l’accusa nei suoi confronti e chi sono gli accusatori? L’accusa per cui è stata arrestata e per cui è in carcere è di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare – art. 12 del Testo Unico sull’immigrazione – e nello specifico è accusata di essere una scafista. Ad accusarla sono due testimonianze, raccolte e tradotte da un interprete afghano, che affermano di averla vista vicino al timone della barca e sul ponte, mentre distribuiva i pasti. Sempre secondo queste testimonianze, Maysoon avrebbe collaborato con il capitano, il turco Ufuk Akturk, che però ha sempre contestato questa versione negando che Maysoon abbia in qualche modo contribuito. A pochi giorni di distanza dallo sbarco, i due testimoni avevano però già lasciato l’Italia. Il giorno dell’incidente probatorio si è concluso con un nulla di fatto perché i testimoni sono stati dichiarati irreperibili dal tribunale di Crotone.
Sono stati rintracciati in seguito da alcuni giornalisti e da Giancarlo Liberati, l’avvocato difensore di Maysoon e, davanti a loro, hanno ritrattato l’accusa, sostenendo che i loro verbali erano il frutto di traduzioni sbagliate e piene di errori. Uno dei due accusatori, l’iraniano Hasan Hosenzadi, ha affermato di non aver compreso bene le domande dell’interprete afghano e che, in quel momento, era confuso e stava male per la fatica del viaggio. Queste smentite, però, non possono essere usate dalla difesa di Maysoon ai fini processuali, perché non è possibile usare testimonianze dall’estero. Della loro prima versione dei fatti, che poi è quella su cui si basa tutta l’accusa, non esiste una registrazione audio-video. Questo rende impossibile, per la difesa, la possibilità di una perizia che verifichi l’esattezza della traduzione delle loro parole. Perché dunque testimonianze poi ritrattate e comunque intrise di errori di traduzione, sono considerate attendibili da un tribunale italiano?
Della storia di Maysoon si interessano prima Amnesty International e poi il gruppo delle attiviste italo iraniane di Women For Life and Freedom. Diventa, un giorno alla volta, un caso che finalmente esce dal silenzio in cui lo si voleva confinare. La tesi accusatoria assume, di giorno in giorno, contorni sempre più fragili e sempre meno credibili. L’accusa insiste sulle prove basate sull’attività di assistenza al capitano e sull’esenzione del pagamento del viaggio. Nel corso delle udienze, Maysoon Majidi ha reso dichiarazioni spontanee, ha mostrato le fotografie del viaggio e, tramite il suo avvocato, ha dato la sua versione anche in merito al pagamento del viaggio e ai soldi versati: l’esistenza della ricevuta di questo pagamento dimostra che lei su quella barca era un passeggero come gli altri e non un’organizzatrice del viaggio.
Il 22 ottobre prossimo saranno ascoltati i testi della difesa, mentre la sentenza di primo grado è prevista entro la prima settimana di novembre. Il rischio concreto è di una condanna pesante, una multa altrettanto pesante per ogni persona a bordo dello scafo e, infine, il rimpatrio in Iran che per lei, donna kurda, attivista politica, sostenitrice dei diritti umani e per i diritti delle donne, sarebbe una condanna definitiva. L’aspetto giudiziario di questa storia assume contorni sempre più assurdi, costruiti su un impianto accusatorio contorto e privo di credibilità, che richiama la situazione di chi come lei arriva in Italia via mare e subisce l’accusa di essere “scafista”. Nel giugno scorso, Paola Rivetti e Tatiana Montella – ricercatrici della Facoltà di Giurisprudenza di Oxford – hanno pubblicato un articolo che evidenzia come “nelle traversate sui barconi che attraversano il mare in fuga da condizioni inumane si creano condizioni di umana solidarietà comunitaria”.
Per la legge italiana, invece, anche un gesto come la distribuzione di un pasto diventa una forma di collaborazione con i trafficanti, sufficiente per essere incriminati e accusati di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, e perdere così la possibilità di accedere alla protezione internazionale. Ecco, allora, che le testimonianze che descrivono la sua partecipazione alla distribuzione di cibo e acqua a bordo diventano una prova. Maysoon paga il prezzo del Decreto Cutro: è molto più di una ipotesi, è quasi una certezza suffragata anche dalle dichiarazioni di Amnesty International che accusa la legge italiana di non essere allineata con la definizione internazionale di “traffico di esseri umani”, così come specificato nel Protocollo delle Nazioni Unite, adottato nel 2000 e ratificato anche dall’Italia. Secondo quel Protocollo, una condotta può essere considerata “traffico di esseri umani” solo se si verifica l’intenzione “di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico o materiale di altro genere”. Nella storia di Maysoon Majidi questa condizione non esiste.
Sono tantissimi, intanto, gli attestati di solidarietà, le iniziative che partono dal basso, dai cittadini, e la convinzione che lei sia la vittima innocente delle politiche migratorie di un governo che punta alla criminalizzazione totale di chi arriva per mare e che definisce con certezza scafista quel migrante come tanti altri a cui viene messo in mano un GPS.
Spiccano, tra le altre, le parole di Zerocalcare, toccanti e sincere perché mettono a nudo le contraddizioni di questo Paese: “È una delle poche volte che conosciamo la biografia di una persona accusata di essere scafista. Sappiamo tutto di lei, il suo lavoro artistico è pubblico così come il suo attivismo nelle rivolte delle donne iraniane, e sappiamo che il suo profilo non è certo compatibile con l’attività di scafista. Eppure, appena arrivata in Italia, scatta l’accusa e viene messa in galera, dove si trova ormai dall’inizio dell’anno. Maysoon Majidi ha tutte le caratteristiche di quelle categorie umane che ci interessano a intermittenza. Lei, nello specifico, è sia curda che attivista per le donne iraniane. Siamo stati tutti solidali e contenti quando i curdi combattevano contro l’Isis e poi ce li siamo dimenticati, solo perché il terrorismo islamico in questo momento non è la minaccia più allarmante in Europa. Ma loro non hanno mai smesso di combattere, come le iraniane non hanno smesso di scagliarsi contro il regime. Ci eravamo innamorati di loro, ma quando arrivano in Italia chiedendo asilo le sbattiamo in galera”.
Il picco della verità e dell’amarezza è nelle parole di Mimmo Lucano, presente alle udienze e vicino a Maysoon dal primo giorno: “Chi ha operato contro le persone, non rispettando i diritti umani, detenendo persone solo per convincimenti politici, occupa importanti ruoli istituzionali. Chi ha aiutato rischia dieci anni di carcere. È il ribaltamento delle cose. La legge Piantedosi sull’immigrazione è sbagliata. È sbagliata perché tiene in carcere una ragazza che ha aiutato gli altri profughi a sopravvivere durante il viaggio in mare. Maysoon non merita di essere detenuta. Lei ha fatto qualcosa in più, lei si batte per il rispetto dei diritti umani, delle persone che sono in difficoltà. E io oggi sono qui proprio perché ho passato queste cose e lo so che ti cade il mondo addosso, ti vedi nel carcere, rinchiuso, senza aver fatto nulla. I paradigmi sono ribaltati”.
“Mi chiamo Maysoon Majidi, sono nata il 29 luglio del 1996 e nel 2019 sono dovuta scappare dall’Iran. Questa è la mia voce”. La voce di una persona innocente.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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