Mentre si va compiendo un atroce misfatto nei confronti del popolo greco e le sofferenze, l’incertezza del futuro dei ceti sociali più deboli si trasformano in disperazione ed angoscia, negli empi santuari della finanza internazionale, come osceni vampiri, i manager della speculazione sono ebbri delle lacrime e del sangue di intere società che crollano: il collasso dell’economia di un intero paese apre infatti nuove possibilità di rapina delle sue risorse e dei suoi beni, accrescendo a dismisura le opportunità di profitto e di dominio del capitalismo finanziario. La recessione che morde le carni di gran parte dei popoli dell’Occidente è il frutto avvelenato di un sistema capitalistico che ha sostituito i processi economici reali con il gioco d’azzardo della finanziarizzazione dell’economia. Per anni le banche d’affari, con la complicità delle agenzie di rating (i cosiddetti analisti finanziari responsabili del declassamento o dell’innalzamento dell’affidabilità di uno Stato), hanno invaso con operazioni finanziarie spregiudicate o predatorie  il sistema bancario ed i mercati azionari, fino al crollo rovinoso di una parte rilevante dello stesso cartello bancario coinvolto nei meccanismi speculativi.

Ma gli effetti disastrosi di questa mostruosa architettura del malaffare legalizzato non li hanno pagati le banche o l’establishment finanziario, ma sono stati scaricati sulle comunità nazionali. L’Europa, per fronteggiare le conseguenze della fase recessiva, ha adottato le scelte che sono funzionali alle logiche capitalistiche più conservatrici: vincolo rigoroso del pareggio di  bilancio di tutti i paesi dell’unione economica europea; strumenti di controllo sugli stati. L’austerità come meccanismo per ridurre il deficit dei paesi più esposti. Nessuna scelta invece di solidarietà, di comprensione verso i bisogni delle popolazioni. Le condizioni poste alla Grecia per ottenere 130 miliardi di sostegno dall’Europa per evitare il fallimento sono l’esempio più evidente di una logica disumana che ragiona solo attraverso la filigrana del denaro o dell’egoismo finanziario. Oltre alla perdita di sovranità del proprio paese, il popolo greco diventa la vittima sacrificale per un massacro sociale senza precedenti.

La prevista diminuzione del 22% di tutti i salari minimi pubblici e privati e del 32% per chi ha meno di 25 anni, il licenziamento di 15.000 dipendenti pubblici entro il 2012 per arrivare a 150.000 nel 2015, l’ulteriore taglio delle pensioni, la riduzione della spesa farmaceutica di un miliardo e 300 milioni, rappresentano una decisione aberrante, una terribile condanna di milioni di persone alla povertà e ad una vita di stenti. Tutto ciò nei confronti di una popolazione  che già dal maggio del 2010 ha subito pesanti tagli salariali, ha visto crescere i costi di tutti i servizi, dall’energia elettrica, ai carburanti, ai generi alimentari, mentre dilaga la disoccupazione. Le immagini delle grandi proteste che hanno attraversato le vie di Atene per giorni e giorni, gli scontri, i feriti, lo scatenarsi della rabbia e della violenza, sono i segnali di una situazione che rischia di deflagrare. Il rischio è che la legittima reazione popolare contro tanta ingiustizia e contro tanta assurda insensibilità verso i bisogni e le ragioni di un intero popolo possano diventare strumento di forze eversive che allignano più facilmente nel caos e nella perdita di ogni speranza nel futuro.

Come è possibile far pagare ai cittadini greci le colpe di una classe politica, quella di centrodestra per prima, che ha truccato i bilanci, favorito la corruzione e l’evasione fiscale, consentito i guadagni di gruppi di affari e che ha accettato da Francia e Germania l’acquisto di consistenti e spropositate forniture militari?  Come può essere accettabile che paghino le classi medie e i gruppi sociali più deboli con l’impoverimento e l’inedia e, invece, la facciano ancora una volta franca le classi sociali più ricche, i banchieri, gli speculatori? Il sogno europeo era quello dei popoli, della solidarietà, di regole che favorissero il superamento degli squilibri territoriali e un processo redistributivo in grado di migliorare le condizioni di civiltà e di vita dell’intera area. Il Fondo monetario internazionale (che ha il primato del dissanguamento dei paesi in cui interviene), insieme alla Commissione Europea e alla Banca europea, sta invece restaurando una nuova Inquisizione che in modo sommario condanna “al rogo” una parte dei cittadini europei.

Crea sgomento che di fronte a quello che sta accadendo in Grecia non ci sia una forte reazione negli altri paesi, che neanche tra gli intellettuali ci sia un moto di rivolta e di condanna nei confronti delle istituzioni comunitarie perché si cambi rotta, perché si introducano correttivi in grado di aiutare il popolo greco ad uscire da una crisi così devastante. Non bastano flebili ed isolate prese di posizione. È necessario che si alzi da tutti i settori della società civile, dalle associazioni, dai movimenti un possente grido di protesta. Non possono essere ignorate l’indifferenza o il fastidio che sul dramma greco sembrano pervadere l’opinione pubblica in Germania e in Francia, paesi che forse hanno entrambi qualche responsabilità sull’evoluzione negativa della realtà greca. L’Europa non può dare sostegno solo alle banche per superare le turbolenze dei mercati e dimenticare che il compito che deve assolvere è creare le condizioni per un superamento comune della crisi economica.

Ciò che sta avvenendo in Grecia riguarda tutti i paesi dell’Europa, riguarda anche l’Italia. Dalla recessione non si può uscire se si punta solo a politiche deflattive e se si condannano i popoli a vivere in condizioni di estrema precarietà. Dalla crisi si può uscire se si creano condizioni di reddito, se si crea il lavoro, se si garantiscono condizioni accettabili di tutela sociale. La riduzione del deficit e dell’indebitamento non si risolvono nella logica delle lacrime e sangue che i paesi economicamente più forti tentano di imporre a quelli più svantaggiati, ma con investimenti anche pubblici, con obiettivi di sviluppo che puntino ad una crescita non solo della produttività ma anche compatibile con l’ambiente, con un uso più corretto delle risorse naturali ed energetiche, con la difesa dei beni comuni. E come hanno gridato in tutto il mondo i movimenti contro la crisi, non è più tollerabile che l’1% della popolazione, che detiene potere e ricchezze, possa continuare a disporre della vita e del futuro del 99% della popolazione a suo piacimento. È questo il percorso su cui si gioca il futuro della democrazia nel mondo e nel nostro paese.

 Salvatore Perna -ilmegafono.org