7 ottobre, un anno dopo. Per molti quel giorno è la sola origine dell’uragano che si è scatenato. Ma ogni uragano ha una sua genesi e un suo sviluppo: si gonfia e si ingrossa ogni giorno, allarga il suo raggio, avanza e supera ogni confine. È facile ricordare solo l’ultimo capitolo di un libro dimenticando o fingendo di non ricordare le pagine precedenti, la trama della storia. Prima del 7 ottobre la trama è stata scritta da una sola penna e comincia ufficialmente nel marzo del 1948, quando un gruppo di uomini, dirigenti sionisti e giovani ufficiali, decide che la pulizia etnica della Palestina non può più aspettare. Lo spiega molto bene Ilan Pappé nel suo libro “La pulizia etnica della Palestina”, edito da Fazi Editore e pubblicato per la prima volta nell’aprile del 2008. Storico, ebreo e anti-sionista, Ilan Pappé nasce ad Haifa nel 1954 da una famiglia sopravvissuta alla persecuzione nazista. Dopo la laurea alla Hebrew University e il dottorato ad Oxford, egli diviene professore di Storia dell’Università di Exeter nel Regno Unito, considerata nel mondo come una delle migliori università di ricerca.
La sua voce è stimata e apprezzata in tutto il mondo, ma è sgradita in Israele dove il governo e gran parte del mondo accademico lo considerano da tempo un traditore. La sua analisi nasce da testimonianze dirette e dallo studio di documenti storici – compresi gli archivi militari desecretati nel 1988 – che portano a conclusioni profondamente diverse e in contrasto con la storiografia ufficiale. Non è il solo libro scritto da Pappé, ma è quello che andrebbe letto per primo, fondamentale per conoscere la trama che porta alla situazione attuale e per capire quanto sia sbagliato vedere solo l’ultimo capitolo dell’intera storia.
Queste righe non vogliono discutere in nessun modo l’orrore del 7 ottobre né giustificarlo, ma poiché da sempre, e soprattutto da quel giorno, ogni voce critica nei confronti dello Stato di Israele e del suo governo e ogni attestato di solidarietà all’umanità di Gaza e della Palestina sono oggetto di disprezzo e di accuse di antisemitismo è doveroso guardare, con lucidità e rispetto della storia, a questi ultimi 365 giorni. La storia è davvero troppo grande per poterla sintetizzare in poche righe: dal piano di pulizia etnica del padre del sionismo, David Ben Gurion, alla nascita dello Stato di Israele; dalla Nakba, la catastrofe, all’occupazione delle terre; dalle violazioni dei diritti umani e civili all’ apartheid riservato ai palestinesi, dalla Striscia di Gaza all’operazione “Piombo Fuso”, dal massacro di Sabra e Shatila ai Check Point. Ttto questo, e molto altro, è una parte innegabile e tremenda di quella storia.
Un anno dopo quel 7 ottobre la storia diventa sempre più tragedia, nell’indifferenza generale dell’Europa e delle “democrazie” occidentali, nell’ipocrisia degli USA che hanno sempre fornito comprensione politica, armi e dollari, allo Stato di Israele e al governo di Benjamin Netanyahu, in nome di quel “diritto alla difesa” che viene sempre riconosciuto ad Israele. Lo diventa nell’incapacità delle Nazioni Unite di esercitare il ruolo per cui esse sono nate, nell’apatia dei principali organi di informazione del mondo occidentale che hanno accettato passivamente il divieto di entrare a Gaza in un anno di massacri indiscriminati. Mai, in nessun conflitto, era stato impedito alla stampa internazionale di vedere e documentare. Negli anni ‘70 la guerra del Vietnam è entrata nelle case di ogni parte del mondo e a portacela sono stati i media e i fotoreporter internazionali.
A Gaza, invece, solo i reporter palestinesi hanno potuto documentare il genocidio di un popolo e, per questo, hanno pagato un prezzo spaventoso: sono 120, uno più uno meno, i giornalisti durante quest’anno. Il parlamento israeliano ha varato una legge apposita su questo divieto, e grazie a quella legge la stampa internazionale non è mai potuta entrare a Gaza e, sempre grazie a quella legge, il governo di Israele ha ordinato la chiusura degli studi di Al Jazeera in Cisgiordania.
Per mesi, l’Occidente ha incredibilmente dibattuto sull’uso della parola “genocidio”. Intanto che questa discussione procedeva, Gaza è stata cancellata: 42mila morti, donne, bambini, esseri umani. In questi 365 giorni, Israele ha mostrato tutto il suo disprezzo nei confronti di quella parte della comunità internazionale che non si è allineata ai suoi diktat: i tribunali internazionali non sono riconosciuti dal governo di Tel Aviv e, per anni, Israele ha ignorato centinaia di disposizioni ONU. Inoltre, in questi ultimi mesi le Nazioni Unite sono state accusate di essere un “covo di antisemiti”. In queste ultime ore, infine, il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha definito lo stesso segretario generale dell’ONU, António Guterres, una “persona non gradita” e gli ha vietato di entrare in Israele. La cancellazione di Gaza però non basta più a Netanyahu e alla sua corte, adesso l’uragano si gonfia e si allarga su tutto il Medio Oriente.
I “grandi” della terra osservano in un silenzio spregevole e complice quell’uragano che fa rumore, avanza e si prende ciò che vuole. Ma fin dove può arrivare il silenzio, a chi conviene e perché? L’anello portante della politica di Israele è il rapporto con i Paesi occidentali e in particolare con gli USA, che vedono nello Stato ebraico un avamposto imprescindibile dell’Occidente in Medio Oriente. Non è un caso il sostengono militare e politico sempre assicurato, come non è un caso il voto contrario – al Consiglio di sicurezza dell’ONU – che ha sempre impedito tutte le risoluzioni che condannavano Israele. Non solo gli USA però: anche l’Unione europea, e quindi anche l’Italia, coltivano relazioni diplomatiche e interessi commerciali-militari che assicurano ad Israele la totale impunità.
In queste ultime ore l’uragano è arrivato in Libano, prima con le esplosioni dei “cercapersone” e poi con i missili e le bombe che arrivano dal cielo. L’obbiettivo dichiarato è la guerra al movimento sciita libanese di Hezbollah. Da Hamas a Hezbollah dunque, ma a pagare il prezzo sono sempre le popolazioni inermi, quelle che con freddezza e cinismo vengono definite le “vittime collaterali”. Sono loro che scappano per le strade o scendono nei rifugi, sono loro che tremano di paura prima di morire. Gli avvenimenti delle ultime ore stanno facendo del Libano un altro fronte di primo piano nella guerra che Israele combatte con Hamas, Hezbollah e Houthi. “Israele ha il diritto di difendersi da Hezbollah e dai gruppi sostenuti dall’Iran. Siamo in costante dialogo con gli israeliani sul modo migliore di procedere. Naturalmente vogliamo vedere un cessate il fuoco”. Questa è la posizione USA, espressa da Karine Jean-Pierre, la portavoce della Casa Bianca.
Ma sullo sfondo c’è l’Iran e, nella notte fra il 30 settembre e il 1° ottobre, la risposta dell’Iran è stata affidata al lancio di centinaia di missili su Tel Aviv e Gerusalemme.
Tutti dicono di impegnarsi per impedire l’escalation. Parole, che non trovano nessuna conferma negli atti e nelle iniziative diplomatiche. Chi davvero vuole la pace in Medio Oriente? Chi davvero pensa di fermare l’uragano? Dal 1948 ad oggi le Nazioni Unite non sono mai sembrate così impotenti e ridotte al nulla come in quest’ultimo anno. La comparsa sulla scena politica di attori diversi dalle grandi potenze del Novecento ha mischiato le carte sul tavolo: al-Qaeda, Isis, Hezbollah, Hama, apparentemente sembrano loro a dettare le regole, ma è davvero difficile non vedere quali e quanti registi si nascondano dietro queste sigle, quali interessi guidino quella “escalation” che tutti dicono di non volere ma che in realtà tutti aspettano che si concretizzi. Il controllo del Medio Oriente è un fattore strategico essenziale negli equilibri mondiali, e se questo costa la cancellazione di Gaza dalla carta geografica e passa attraverso un uragano che spazza via tutto e tutti, i padroni della Terra sono disposti ad accettarlo.
L’Occidente, come sempre, è alla finestra. Troppo vile per imporre una pace che forse non ci sarà mai e che forse non interessa a nessuno. Troppi amici e troppi alleati in quella parte del mondo che non possono essere delusi, troppi interessi che altri possono controllare per conto dell’Occidente stesso. Sullo sfondo ci sono le posizioni dei paesi arabi in Medio Oriente e i famosi accordi di Abramo, quelli che l’allora presidente USA, Donald Trump, definiva come “l’alba di un nuovo Medio Oriente”. Un anno dopo quel 7 ottobre, la rappresaglia di Israele e il silenzio complice dei potenti ha dato questi frutti. Sono frutti avvelenati. Un giorno i bambini di Gaza saranno adulti, Gaza non ci sarà più e toccherà a loro alzarsi in piedi e raccogliere le macerie, asciugare le lacrime e le ferite, ricostruire. Ma le cicatrici restano aperte e quelle ferite non potranno guarire ed essere dimenticate, ma forse quei bambini di oggi, domani sapranno essere adulti migliori delle bestie che oggi, dai banchi dei governi e delle Nazioni Unite, hanno permesso che venisse cancellata la loro storia, la loro vita e il loro futuro. Chi oggi ha permesso tutto questo, quel giorno potrà solo vergognarsi.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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