“Tutti sapevamo che questo poteva accadere. Abbiamo parlato di questa possibilità per anni, ma ora che la tragedia ha colpito è molto peggio di quanto chiunque abbia immaginato…Non abbiamo precedenti per ciò che è accaduto oggi, e le conseguenze di questo attacco saranno senza dubbio terribili. Più violenza, più morti, più dolore per tutti. E così, in fin dei conti, comincia il Ventunesimo Secolo”. Nella notte fra l’11 e il 12 settembre, 2001 Paul Auster – scrittore e poeta, regista, l’uomo che durante la presentazione di un suo libro descrisse il presidente Usa George W. Bush come un “arbusto velenoso di una specie estinta” – usò queste parole per chiudere un suo scritto. E quel “Ventunesimo Secolo” cominciava davvero subito, quando gli USA invasero l’Afghanistan per dare agli americani la certezza che il loro presidente, George W. Bush, avrebbe vendicato l’11 settembre: questo chiedevano e questo il presidente avrebbe fatto, andando anche oltre l’Afghanistan e arrivando anche all’Iraq di Saddam Hussein.

In quel conflitto contro quello che veniva definito “l’asse del male”, gli USA trascineranno i paesi alleati in una guerra infinita, una guerra che si concentra prima sull’Afghanistan e poi sull’Iraq, ma ignora completamente le gravi responsabilità dell’Arabia Saudita, grande e fedele alleato degli Stati Uniti. Le armi di distruzione di massa erano una bugia ma nessuno lo ricorda più, perché una bugia ripetuta all’infinito diventa una verità, così come in molti hanno dimenticato altri capitoli della storia fra USA e Afghanistan: l’Operazione Cyclone, per esempio. Era il nome in codice del piano di sostegno varato dalla CIA ai tempi dell’occupazione sovietica, con cui gli USA hanno armato e finanziato i gruppi islamici militanti, compresi i gruppi jihadisti, che in Afghanistan combatterono contro l’intervento militare dell’Unione Sovietica dal 1979 al 1989. Quel programma continuò anche dopo il ritiro sovietico del 1989. Non sono mai stati spiegati neppure gli imbarazzanti e profondi legami economico-finanziari, prima e anche dopo l’11 settembre, tra la famiglia Bush e quella di Osama bin Laden, legami che si estendono ad altre potenti famiglie saudite. 

Perché, allora, la necessità di una guerra lunga vent’anni in Afghanistan, e proseguita con la totale occupazione del Paese anche dopo la morte di Bin Laden? La caccia a Bin Laden e la motivazione della guerra al ”terrorismo” appaiono come alibi quasi secondari. Sarebbe più opportuno parlare dell’esigenza USA di assicurarsi il controllo di un territorio e delle sue ricchezze o della necessità di riaffermare e ristabilire quel ruolo di guardiano del mondo, un’egemonia che l’11 settembre aveva in qualche modo offuscato e per cui serviva dunque una reazione rapida e durissima. Qualunque sia la risposta il risultato è stato una guerra che si è consumata per vent’anni, andando avanti quasi per inerzia, e l’unico cosa certa è che nessuna democrazia è rinata dalle ceneri di quella guerra. Una guerra che non ha sconfitto nulla del potere dei talebani, ma ha annientato un popolo schiacciato da poteri e interessi più forti di lui e della sua storia.

Il 30 agosto 2021 gli ultimi militari americani hanno lasciato Kabul e consegnato, di fatto, il paese nelle mani dei talebani. Impossibile dimenticare l’immagine degli afghani disperati aggrappati agli aerei militari che rullano sulla pista. “In Afghanistan non è rimasto un solo soldato americano. Il ritiro significa sia la fine dell’evacuazione del materiale militare sia la fine di quasi 20 anni di missione iniziata poco dopo l’11 settembre”. Con queste parole del capo del comando centrale USA, il generale Kenneth McKenzie, calava il sipario sulla guerra in Afghanistan, la più lunga di tutta la storia americana. Sono passati tre anni dalla fuga di chi aveva scatenato quel conflitto che, secondo gli USA, era una “missione” per portare la “democrazia” e che ha invece riconsegnato il Paese alla guida suprema dei talebani. Dopo una guerra infinita contro Bin Laden, Kabul e l’Afghanistan, gli afgani sono stati consegnati alla famiglia degli Haqqani, gli antichi e migliori amici di Osama bin Laden.

Così l’Afghanistan, oggi e dopo decenni di guerra e di occupazione, è un Paese sempre più isolato, immerso in una spaventosa crisi politica, economica e umanitaria: la sua gente ridotta alla fame e la popolazione femminile esclusa da ogni forma di vita civile e sociale. Per le donne afgane non esiste alcun diritto, le scuole per ragazze sono tutte chiuse e per loro non vi è alcuna possibilità di trovare un lavoro. Il ritorno al potere dei talebani segna la continuità di un regime oscurantista che già aveva spento con la violenza quel periodo di modernizzazione del Paese iniziato alla fine degli anni ‘60. Oggi gli USA non riconoscono il nuovo regime di Kabul, ma questo non significa nulla se non l’ennesima ipocrisia. È lo sbocco inevitabile degli accordi di Doha del febbraio 2020, fra l’allora segretario di Stato USA, Mike Pompeo, e il numero due dei talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar. Da quegli accordi era stato escluso il governo di Kabul, perché gli USA avevano scelto di trattare direttamente solo con i talebani.

Il loro ritorno al potere, nell’agosto 2021, ha costretto molti afghani e le donne in particolare a scegliere se rimanere e rischiare la vita oppure andarsene dal loro Paese. Una scelta dolorosa e per poche persone: una scelta possibile solo per chi poteva avere contatti fuori dall’Afghanistan, per chi poteva permetterselo e per chi, ammirato e conosciuto per il proprio impegno politico, sapeva di poter essere accolto da altri paesi. È il caso di Zarifa Ghafari, nominata sindaca di Maidan Shar nel 2018, a soli 24 anni. I talebani le hanno ucciso il padre e lei stessa è sfuggita a numerosi attentati. Una vita difficile da reggere, ma anche ricca di giusti e doverosi riconoscimenti. Nel 2020 è stata selezionata tra le International Women of Courage e lei racconta questa sua vita nel libro “Zarifa, la battaglia di una donna in un mondo di uomini” (edito da Solferino, e presentato al Salone del libro di Torino nel 2023).

La sua idea sulla guerra, sull’occupazione americana e sugli accodi di Dhoa, è estremamente lucida ed è davvero impossibile non condividerla: “La guerra in Afghanistan non è una guerra nostra. Da decenni, quel conflitto è causato da una interferenza dei servizi segreti stranieri e da una lotta per il potere delle superpotenze, come Usa, Gran Bretagna, Russia e Cina, con l’aiuto del paese sponsor del terrorismo, il Pakistan. Dai tempi dell’impero britannico, le agenzie di intelligence hanno usato la religione per indebolire la popolazione meno istruita e vissuta in guerra. Le superpotenze lottano per il loro dominio…vent’anni dopo essere arrivati con le loro bombe e le promesse di democrazia, gli americani stanno abbandonando il mio paese al suo destino […] Gli accordi di Doha sono solo un altro piano internazionale per svendere le vite, i sogni, l’oggi e il futuro del popolo afghano. Gli Usa hanno cercato di mascherare il loro fallimento nella lotta contro il terrorismo, vendendo il mio paese ai nostri nemici”.

“ Gli accordi di Doha – continua Zarifa Ghafari nel corso di una intervista concessa a Giuliana Sgrena per Il Manifesto – sono un’altra vergognosa macchia nera sull’immagine di tutte le comunità che difendono i diritti umani, di coloro che amano la democrazia. Noi afghani non siamo mai stati causa di crisi mondiali, ma abbiamo sempre pagato per la perdita di dominio delle superpotenze. Gli USA sono venuti in Afghanistan senza un reale piano strategico, nemmeno per ritirarsi, così ci hanno svenduti ai nostri nemici per potersi disfare di una missione che avevano iniziato con false promesse. Gli estremisti religiosi hanno continuato a operare nel paese anche durante i vent’anni di occupazione occidentale […] In Afghanistan alle donne è vietato studiare, lavorare […] Eppure c’era chi sosteneva che i ‘nuovi talebani’ erano diversi da quelli al potere tra il 1996 e il 2001. Chi ha potuto credere questo non aveva nessuna conoscenza della politica, dei talebani e soprattutto dell’Afghanistan”. 

La storia si ripete: dopo decenni di guerre e di occupazioni, proclamate in nome di Dio e della democrazia, il prezzo più alto è pagato sempre dalle popolazioni, dalle generazioni che quelle guerre le vivono in prima persona e da quelle successive. Poi, alla fine di ogni occupazione e di ogni guerra, chi se ne va lo fa lasciando dietro di sé solo le macerie e la disperazione. Le grandi potenze, i padroni del mondo, i signori della guerra e i loro alleati fanno così. Da sempre.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org