La vita non entra a Gaza e su quello che ne rimane. A Gaza si muore: sotto le bombe oppure di fame, ormai non fa quasi differenza, si muore e basta. Il progresso crea armi sempre più sofisticate, qualcuno arriva perfino a chiamarle “intelligenti”, e alimenta la piaga antica della carestia. Ma è una carestia diversa da quelle che il tempo ha conosciuto: questa volta la colpa non è della natura ma degli uomini. Sono gli uomini che negano a Gaza il diritto di vivere, e con ogni mezzo a loro disposizione ci stanno riuscendo. Mentre a Gaza si muore di fame, a poca distanza dal valico di Rafah – sul confine tra l’Egitto e la Striscia di Gaza – un’interminabile colonna di 1500 camion è ferma, bloccata sulla strada. Portano tonnellate di aiuti umanitari, cibo e medicinali e attendono di entrare a Gaza, ma per poterlo fare devono prima superare i controlli delle autorità israeliane: se a bordo vengono individuati prodotti che non sono autorizzati, quel camion viene respinto e rimandato indietro.
Il paradosso che non esista alcun elenco ufficiale dei prodotti vietati da Israele, dimostra che l’unico intento è impedire che quei camion arrivino a destinazione oppure fare in modo che arrivino comunque il più tardi possibile. Quando dopo lunghe ore si superano i controlli, si arriva a destinazione, ma il 1° marzo scorso la folla di persone che correva incontro a quei camion ha trovato il piombo dei soldati. Oltre cento vite sono state cancellate e i feriti non si contano. In un primo momento, Israele ha ammesso gli spari sulla folla, sostenendo che “rappresentasse una minaccia”, per poi negare tutto subito dopo e, anzi, scaricare la responsabilità della strage sui palestinesi accusandoli di voler saccheggiare i camion degli aiuti. In seguito gli USA hanno bloccato una dichiarazione di condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, proposta dall’Algeria, che accusava le forze militari israeliane di aver sparato contro i civili.
Davanti a questo muro si consuma tutta l’ipocrisia della comunità internazionale: il 7 marzo, le Nazioni Unite hanno denunciato ufficialmente che quasi 600mila persone, un quarto della popolazione di quella striscia di Palestina, stanno lottando contro la carestia e serve quindi un intervento urgente, ma sembra che nessuno sappia e voglia obbligare lo Stato e il governo di Israele a consentire questo intervento. Israele decide, USA ed Europa tacciono, e le Nazioni Unite restano solo un’intenzione castrata sul nascere dal suo stesso peccato originale: il diritto di veto. Il 20 febbraio scorso, gli USA hanno sfruttato una volta di più questo “diritto” per bloccare una risoluzione del Consiglio di sicurezza, presentata sempre dall’Algeria, che chiedeva un cessate il fuoco, immediato e definitivo, nella Striscia di Gaza. Linda Thomas Greenfield, l’ambasciatrice USA presso il Consiglio, ha motivato il veto sostenendo che la sua approvazione avrebbe influito negativamente sui negoziati in corso con Qatar, Egitto e le parti coinvolte. Sulla scia degli USA il Regno Unito si è astenuto.
Dal 7 ottobre 2023 è la terza volta che gli USA bloccano risoluzioni ONU utilizzando il diritto di veto. Mentre le Nazioni Unite sono avvolte nelle nebbie del diritto di veto, Israele continua sulla sua strada, lungo la quale ogni dissenso viene schedato alla voce “antisemitismo” e la lista dei nomi sgraditi al governo di Benjamin Netanyahu si allunga: il 18 febbraio 2024 anche Lula da Silva, presidente del Brasile, è entrato a far parte della lista, in seguito ad alcune sue dichiarazioni rilasciate durante il vertice dell’Unione Africana, ad Addis Abeba: “È la guerra di un esercito professionale contro donne e bambini…nella Striscia di Gaza non c’è una guerra, ma un genocidio”. Lula ha anche protestato ufficialmente contro la sospensione dei finanziamenti all’Agenzia ONU per i Rifugiati (UNRWA), per il presunto coinvolgimento di alcuni suoi funzionari nell’azione di Hamas del 7 ottobre.
Le bombe continuano a cadere sui gazawi e sulla loro straordinaria capacità di esistere e di resistere. Tanti aspetti della loro storia vengono taciuti e nascosti dai media occidentali, mentre invece dovrebbero essere gridati ad alta voce, perché sono la prova della fierezza di un popolo che la comunità internazionale ha abbandonato nelle mani di Hamas e consegnato alla ferocia dei tanti Benjamin Netanyahu che hanno ridotto Gaza prima alla più grande prigione a cielo aperto e poi ad un cumulo di cenere e di morte. Sostenere che i gazawi e Hamas sono la stessa cosa è la grande menzogna storica, utile alla destra estrema e sionista di Israele per mantenere il potere, e ai tanti loro alleati fuori dai confini di Israele. Un’inchiesta importante, e un sondaggio condotto da Arab Barometer prima del 7 ottobre 2023, dimostra che a Gaza e nei Territori occupati di Cisgiordania – dove non si vota da decenni – il leader più stimato e apprezzato è Marwan Bargouti, esponente di Fatah, da 20 anni detenuto nelle galere israeliane e considerato un eroe per aver guidato le prime due intifade. Bargouti sarebbe però un enorme problema sia per Hamas che per Israele, perché potrebbe essere visto come il Nelson Mandela palestinese.
Il mosaico di bugie e di violenze disegnato sulla Striscia di Gaza, e sulla Cisgiordania occupata, cancella ogni traccia di vita e di umanità. I veti alle Nazioni Unite e le bombe non riescono però a nascondere quello che è impossibile nascondere perfino per l’ipocrisia dell’Occidente. Nel calendario islamico il nono mese vuol dire Ramadan, e per tutti i musulmani del mondo è il mese più sacro: un momento di grande importanza che ha radici antiche, non solo dal punto di vista religioso e spirituale, ma anche per il suo valore di condivisione e di unione. Durante il mese del Ramadan, il digiuno dall’alba al tramonto è uno dei cinque pilastri dell’Islam. L’unico pasto consentito è quello della sera, ed è proprio quello il momento del ritrovo e della condivisione.
Dopo aver alimentato, difeso e armato Israele, dopo aver posto ogni veto possibile, a Washington il portavoce del dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, ritiene che sia necessario trovare un accordo prima dell’inizio del Ramadan: “Continuiamo a credere che gli ostacoli non siano insormontabili e che un accordo possa essere raggiunto…quindi continueremo a spingere per ottenerne uno”. Il Ramadan è iniziato il 10 marzo, ma forse questo particolare è sfuggito al portavoce. Quel digiuno che ogni musulmano ha il diritto di osservare, in nome della sua fede religiosa e della sua spiritualità, è profondamente diverso e lontano dalla fame e dalla sete imposti dalle bombe. Ecco allora che il tweet del presidente USA, Joe Biden, ha il sapore amaro di una ipocrisia difficile da accettare: ‘“Stasera – mentre la nuova falce di luna segna l’inizio del mese sacro islamico del Ramadan – Jill e io estendiamo i nostri migliori auguri e preghiere ai musulmani in tutto il nostro Paese e in tutto il mondo”.
In una nota ufficiale della Casa Bianca si sottolinea, inoltre, che il Ramadan rappresenta “un momento di riflessione e di rinnovamento. Quest’anno arriva in un momento di immenso dolore…la guerra a Gaza ha inflitto una terribile sofferenza al popolo palestinese. Oltre 30mila palestinesi sono stati uccisi, in gran parte civili tra cui migliaia di bambini, e circa due milioni di palestinesi sono stati sfollati a causa della guerra. La sofferenza del popolo palestinese sarà il primo pensiero di molti. Sarà il mio primo pensiero. Gli Stati Uniti continueranno a guidare gli sforzi internazionali per portare più assistenza umanitaria a Gaza via terra, via aria e via mare”. Davvero difficile credere a queste parole.
Per Gaza, per Rafah e per il popolo di Palestina è il Ramadan più difficile e triste di sempre, fra sfollati che contano i morti, i dispersi e i feriti. Un Ramadan fra le macerie e le ceneri di ciò che resta di una vita che scappa: dalle bombe e dalla carestia, dalla pulizia etnica e da quella parola che in Occidente nessuno sembra voler pronunciare perché evoca tristi e pesanti responsabilità: genocidio. Ma è difficile, quasi impossibile, scappare dal significato delle parole.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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