Milano, via Rovello 2. A pochi passi dal Duomo c’è un antico palazzo del quindicesimo secolo, a suo tempo già di proprietà della famiglia Carmagnola. Sul finire degli anni ‘30, quel palazzo diventa una sede dell’Organizzazione Nazionale Dopolavoro del regime fascista e, agli inizi del 1940, ospita il cinema Broletto. Un cinema che ogni giorno, alle 10 del mattino, apre le sue porte a proiezioni, spettacoli e a qualche concerto. L’Enciclopedia italiana Treccani ci spiega come, nelle città lombarde, a partire dall’undicesimo secolo, con il temine “Broletto” si indicavano i palazzi dove si amministrava la giustizia, il palazzo dei consoli e del podestà. Amministrazione della giustizia e podestà, parole che l’Italia del ventennio fascista ha imparato a conoscere in tutta la loro ferocia. Nella Milano occupata dai nazisti e dai cani da guardia fascisti, quel palazzo di via Rovello diventa il comando e l’ufficio politico della Legione “Ettore Muti”, centrale di polizia con celle di isolamento e di tortura.
Da quelle celle, disposte al primo e al secondo piano, passano partigiani, ebrei e antifascisti: rinchiusi, interrogati e torturati. Ettore Muti, militare, aviatore, segretario del Partito nazionale fascista dall’ottobre 1939 fino al 28 ottobre 1940, lega il suo nome a tutto il ventennio fascista e alle squadre d’azione: nel 1923 entra nella “Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale”, nata per inquadrare le squadre fasciste. Durante la guerra d’Etiopia è pilota e risponde agli ordini e al comando di Galeazzo Ciano. Nel 1936 partecipa alla Guerra di Spagna e, in qualità di comandante della squadriglia dell’Aviazione Legionaria, partecipa ai bombardamenti di porti e città. Sarà decorato per questo e nel 1939 sarà protagonista anche dell’invasione in Albania che porterà altre medaglie sulla sua giacca. Al suo ritorno, verrà nominato da Benito Mussolini consigliere nazionale della Camera dei fasci e delle corporazioni e, in seguito, segretario del Partito Nazionale Fascista. Ettore Muti morirà in circostanze mai chiarite dopo la caduta del fascismo, nei giorni del governo Badoglio, quando i carabinieri lo arrestarono su ordine del governo.
Da quel momento, e dopo l’8 settembre, il fascismo presentò Muti come un martire e a Roma gli fu dedicata persino una piazza. A Milano viene chiamata con il suo nome la legione di via Rovello. Al comando della legione fu nominato un ex caporale dell’esercito, Francesco Colombo. Accanto a lui, molti squadristi milanesi, detenuti evasi ed ex detenuti del carcere di San Vittore. È nel marzo del 1944 che la legione assume il nome definitivo di “Legione autonoma mobile Ettore Muti”, diventando protagonista assoluta di operazioni di rastrellamento, arresti e fucilazioni di civili e partigiani, a Milano e in tutta la sua provincia, sconfinando in Piemonte e Valle d’Aosta. Nel 1944 la città di Milano è sotto l’occupazione nazista da quasi un anno e ha già vissuto i grandi scioperi del mese di marzo, pagati a caro prezzo con le deportazioni nei campi di concentramento in Germania di operai e partigiani. Milano, una città sotto assedio e occupata, dove ogni palazzo conserva una ferita alla parola “Libertà”: Villa Triste, l’Albergo Regina, Palazzo Carmagnola in via Rovello sono i posti che ieri erano prigioni e luoghi di tortura e che oggi in tanti hanno dimenticato.
Il 10 agosto il Comando della Sicurezza tedesca a Milano, come rappresaglia di un attentato contro un camion tedesco avvenuto in viale Abruzzi due giorni prima, mai rivendicato dai partigiani e che non fece vittime tra i tedeschi, ordina di prelevare dal carcere di San Vittore 15 partigiani: vengono fucilati all’alba in Piazzale Loreto e, per un giorno intero, i loro corpi vengono lasciati a terra sotto il sole, vilipesi e oltraggiati dai fascisti fino a sera, impedendo a parenti e cittadini di avvicinarsi. Il plotone di esecuzione era formato dai fascisti della Legione Ettore Muti, e la loro responsabilità fu confermata da due sentenze della Corte d’Assise Speciale di Milano, una del 20 luglio 1946 e l’altra del 23 maggio 1947. Il 25 aprile 1945 la 120ª Brigata Garibaldi occupò la sede della Muti in via Rovello, ma circa duecento fascisti, insieme al loro comandante, Franco Colombo, fuggirono verso Como nel tentativo di raggiungere Mussolini in fuga. Franco Colombo, catturato dai partigiani, fu fucilato a Lenno il 28 aprile. La storia della Legione Muti e della sua Brigata Nera è una ferita che non può chiudersi in una pagina.
Nel gennaio 1947, Antonio Greppi diventa sindaco di Milano e la sua giunta, con Lamberto Jori assessore alla cultura, scrive la nuova pagina del palazzo di via Rovello. Giorgio Strehler, Giovanna Galletti, Paolo Grassi e Nina Vinchi entrano in quello stabile umiliato, dove i vecchi camerini trasformati in celle portavano le tracce di sangue sui muri, con le scritte di nomi e cognomi, e ne escono con un’idea che diventa impresa. La città intera capisce il valore di quell’impresa e contribuisce a questa nuova vita. Nasce così il Piccolo Teatro della Città di Milano, che diventa il primo teatro stabile in Italia. Elio Vittorini, sulla sua rivista “Il Politecnico”, scriverà che quello doveva essere un “teatro d’arte, ma per tutti” senza una gestione speculativa, dove il prezzo del biglietto potesse consentire a tutti di accedere ad un teatro. In quel luogo è passata la storia della vita politica e artistica di Milano: resteranno sempre nella memoria di Milano “L’opera da tre soldi” di Bertolt Brecht interpretata da Milva, il “Re Lear” con Tino Carraro e Ottavia Piccolo. Resteranno i passaggi di Mariangela Melato e dei tanti artisti che in quel teatro hanno trovato una casa accogliente.
Oggi il “Piccolo Teatro della Città di Milano” torna sulle prima pagine dei giornali per motivi che nulla hanno a che fare con l’arte e la cultura. Nel suo Consiglio d’amministrazione entra a far parte Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio Benito Maria La Russa, presidente del Senato della Repubblica. Quali siano le competenze di Geronimo La Russa e quali le conoscenze che quel ruolo richiede è una domanda che può avere una sola risposta: nessuna. È però una nomina che non deve stupire, per almeno due ragioni che non possono essere nascoste e/o taciute. La prima è che le dinamiche di funzionamento delle istituzioni culturali pubbliche, nelle aziende partecipate come nelle fondazioni pubbliche che si reggono su un consiglio di amministrazione, sono sempre di natura politica e non culturale. Appare del tutto evidente la distanza culturale fra l’essenza di un teatro e il signor La Russa. La seconda è che la destra di governo, compreso il ministro della Cultura, Sangiuliano, ha deciso di imporre la sua linea guida in tutti i settori della cultura e dell’informazione, senza lasciare un solo spazio vuoto, perché il potere ha bisogno di governare e controllare la cultura.
Andando indietro di poche settimane, la stessa cosa è accaduta con la nomina di Pietrangelo Buttafuoco alla Biennale e prima ancora è giusto ricordare gli attacchi portati al direttore del Museo Egizio di Torino. La nomina di Geronimo La Russa nel Cda di un teatro fra i più importanti e ricchi di storia del Paese va in questo senso, un teatro – fra le altre cose – nato nella Milano della Resistenza in un luogo di prigionia e tortura, durante la Repubblica di Salò. Il peso specifico di questa nomina è enorme: Geronimo La Russa è il figlio della seconda carica dello Stato, un uomo – Ignazio Benito Maria La Russa – che non ha mai rinnegato e nascosto la sua matrice e la sua fede fascista della quale anzi si vanta. Un uomo che, nella Milano degli anni ‘70, era il responsabile del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante. L’uomo che, nel pomeriggio del 12 aprile 1973, marciava verso la Prefettura insieme ai vertici del partito. Negli scontri di quel 12 aprile rimase ucciso il poliziotto Antonio Marino. Quella data viene ricordata ancora oggi come il “giovedì nero di Milano”.
Indipendentemente dalle competenze professionali, il cognome La Russa, nella destra di Milano ma non solo, è un cognome da spendere. E allora no, non è un caso. Se qualcuno non lo ricorda, se qualcuno non lo ha mai saputo, se qualcuno finge di non sapere, è giusto ricordare quello che durante la Repubblica di Salò accadeva dentro le stanze del palazzo di via Rovello 2. Quel palazzo oggi è un simbolo di una città che in gran parte ha perso la sua memoria e la sua storia. Se oggi il figlio della seconda carica dello Stato, l’uomo che si vanta con orgoglio del suo essere fascista, entra in quel Teatro sedendo nel Cda, non è solo un insulto alla città di Milano, è un insulto a tutti gli antifascisti, alla lotta della Resistenza Antifascista, alla storia. È, appunto, un marcare il territorio. Sono ancora loro, anche se in tanti fanno finta di non riconoscerli.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
Commenti recenti