La maschera di Giorgia Meloni e del suo governo, il cui motore è alimentato dal carburante della più oscura tradizione della destra italiana, quella ingabbiata tra nostalgici, reduci degli anni di piombo e grotteschi eredi da sketch satirico, è caduta da tempo. Pertanto, tutto quello che accade adesso era ampiamente previsto e prevedibile. Le misure disumane contro i migranti, la politica economica sterile nei confronti di chi è in difficoltà, la discriminazione tra donne lavoratrici, tra madri e donne single, la manovra indecente sulle pensioni, che schiaffeggia i giovani e la classe media e favorisce i ceti più ricchi: tutto ciò è solo l’antipasto di quello che è il disegno di Giorgia Meloni, del suo entourage e del suo governo. L’ultima idea è quella di un assalto feroce alla democrazia, ai principi più sacri della Costituzione, sottoposti alla smania autoritaria di una premier minuscola che gioca con il Paese per nutrire la sua rancorosa frustrazione ideologica.
Anni di opposizione, anni di urla in piazze semivuote, anni di insignificanza politica, con una anonima quanto inutile parentesi ministeriale, hanno nutrito una rabbia che oggi si è liberata dentro l’orgiastica sensazione di aver conquistato il potere. E di averlo fatto con numeri che consentono tentativi pericolosi ed efficaci di far saltare il banco e aprire la strada a derive sudamericane. Un tentativo ambizioso e difficile da realizzare, ma pur sempre un rischio dal quale questo Paese, per tutta una serie di motivi, sembra non essere molto capace di proteggersi. La riforma costituzionale che il centrodestra (Renzi incluso) vuole promuovere va in una direzione unica: costruire un sistema di governo della nazione che preveda un uomo solo (o una donna sola) al comando, con poteri che umiliano il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica e con una serie di ripari che riducono la possibilità di sfiduciare l’esecutivo, ostacolando il dissenso e l’alternanza. Con la funesta chicca di un ritorno al passato, attraverso il premio di maggioranza che blinda il parlamento e annulla praticamente di fatto il peso dell’opposizione, elemento fondante e necessario in una democrazia parlamentare.
Il premierato di Giorgia Meloni è un obbrobrio urticante e nocivo, una mina piazzata dentro la democrazia. Un sistema sognato per affidare al popolo la scelta dell’individuo solitario seduto al posto di comando, un’idea che, purtroppo, come è stato rilevato molte volte in questi anni, piace agli italiani, a questi italiani ingozzati da circa tre decenni di propaganda astiosa verso tutto ciò che è diritto, norma, principio morale. L’insofferenza per lo Stato e per la cultura democratica, che questa destra sbilenca ed ebbra ha alimentato (non da sola purtroppo) con il suo populismo tutto slogan e nemici, è diventata vita quotidiana, prima sottocultura strisciante, poi sottopensiero galoppante. Meloni lo sa e per questo spinge. Lo sapeva anche Renzi, ma il suo disegno fu sviluppato male e in un contesto differente. Meloni sa anche che questa riforma non passerà con il solo voto parlamentare. Il suo progetto, che lei stessa ha definito “una rivoluzione” ma che invece è tremendamente reazionario, non otterrà la maggioranza dei due terzi necessaria per l’approvazione immediata.
La premier, però, è convinta (anche giustamente) di avere i numeri per la maggioranza assoluta che permetterà di passare al referendum. Lì, nel dialogo con il popolo, con questo popolo, si giocherà la sua carta più importante, quella che potrebbe cambiare la sua storia e purtroppo anche quella del nostro Paese. Lei sa che in quel dialogo con il popolo avrà più possibilità di quante ne hanno oggi le opposizioni. E qui arriviamo a un altro tasto dolente. Il disegno della destra, la quale difficilmente, malgrado qualche anima non sia così convinta di questa riforma, si dividerà creando ostacoli, trova una strada in discesa per via della disarmante debolezza delle forze di opposizione. A parte le critiche e la promessa di una dura quanto vana (per via dei numeri) battaglia parlamentare, non c’è altro. Non ci sono mobilitazioni in vista, non ci sono piazze da chiamare a raccolta, non ci sono movimenti da mandare nelle avanguardie civili.
L’opposizione è un terreno arido, nel quale i semi più floridi sono quelli dell’incapacità di rendersi conto realmente e attivamente del pericolo che la nostra democrazia corre. In un contesto in cui anche il sindacato è ormai frammentato e privo di quella unità che tante volte ha fatto da argine ai tentativi autoritari dei poteri di turno, il sogno eversivo di Giorgia Meloni appare tutt’altro che irrealizzabile. Anche perché non sembra che qualcuno sia in grado di suonare la sveglia. In tutto ciò, allora, romanticamente, una speranza la proviamo a costruire con le piccole resistenze che assumono un valore altamente simbolico, ma soprattutto restituiscono esempi di cui oggi purtroppo difettiamo. La speranza arriva da Ancona, da un clochard che, grazie all’associazione Avvocato di Strada, ha deciso di liberarsi della condanna di essere ultimo tra gli ultimi.
Un senza dimora, uno dei tanti esseri umani sputati fuori dalla burocrazia e dal destino. Uno di quelli che il mondo qui sopra guarda come vittima o bersaglio, al massimo come arredo umano da guardare con fastidio o con la falsa carità dell’obolo. Quest’uomo, di cui non conosciamo il nome e l’origine etnica, probabilmente un richiedente asilo rimasto fuori dal sistema di accoglienza, ha scelto di buttare via gli abiti della vittima e di indossare la dignità del diritto e della rivendicazione della propria esistenza. Davanti all’ordinanza anti-bivacco e per il decoro urbano, emessa ad agosto dal sindaco Silvetti, con la previsione di multe a danno di chi dorme su panchine, gradini o per terra, ha deciso di impugnarla e di ricorrere al Tar delle Marche. Che adesso dovrà discutere il ricorso e decidere. L’uomo senza fissa dimora avrà la meglio? Non è dato saperlo, ma ha già vinto con la sua battaglia, con la sua idea, quella che gli ha suggerito di non arrendersi, di combattere, anche se è considerato l’ultimo della fila, il più debole, rispetto alla granitica arroganza del potere.
Un potere che scambia la povertà per problema di decoro e che sostituisce la solidarietà con l’accanimento. Sempre in nome del popolo, di quel popolo drogato da quella propaganda che ha avuto come suo culmine (verso il baratro) la criminalizzazione della solidarietà. Qualcosa che Giorgia Meloni ha istituzionalizzato con le scelte del suo governo, con una politica economica discriminatoria e crudele, che ha fatto da contorno a ciò che per lei costituisce la assoluta priorità: prendersi il potere e abolire i contrappesi istituzionali. Un progetto che, come detto, si trova davanti un’opposizione debole, caotica, ibrida, priva di identità e coraggio, incapace anche di infondere speranza nella lotta e nel suo esito. La stessa opposizione che, d’altra parte, a livello locale ha talvolta esaltato e reso personaggio chi utilizzava più o meno la stessa retorica del decoro urbano. La stessa opposizione che alla solidarietà spesso non ha fatto carezze, ma anzi ha regalato protocolli rigidi e contrapposto norme ingiuste ancora oggi esistenti.
Allora, chissà se da Ancona, da un fatto simbolico, da un afflato di resistenza, le opposizioni possano trarre ispirazione e magari iniziare a comprendere che la politica, in certi momenti, non passa dai salotti tv, dalla diplomazia o dalle aule parlamentari. Ma anche e soprattutto dalle piazze e dai gesti forti. Qualcuno ricorderà la “legge truffa” di De Gasperi e quella durissima reazione che, di fatto, la respinse e infine annullò. Ecco, dalla storia italiana, dal nostro passato, si possono trarre tanti altri buoni esempi da utilizzare per fermare chi, in questo Paese, vuol riproporre un altro pezzo della nostra storia, quella che il nostro cuore democratico, lo stesso che batteva nel petto di chi partorì la Costituzione italiana, ha spazzato via con coraggio e sacrificio, sperando che non tornasse mai più.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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